Corriere Torino

AUTO, ADESSO RIPARTIRE DA TORINO

- Di Giuseppe Berta

L’ipotesi di fusione tra Fiat Chrysler e Renault è stata considerat­a dall’inizio con un certo scetticism­o da una parte degli analisti del settore dell’automobile. Anzitutto per la sua estrema macchinosi­tà e in secondo luogo perché postulava un matrimonio fra due soggetti, ma ne lasciava fuori un terzo, Nissan, che era strategico per la riuscita dell’intesa. È singolare che si voglia stipulare uno stretto sodalizio fra due gruppi costretti a fare affidament­o su un terzo, il quale tiene invece ad affermare la sua sfera di autonomia. In ogni caso, un’eventuale intesa avrebbe dato origine a un’architettu­ra così complicata da sfidare le possibilit­à di funzioname­nto in una congiuntur­a delicata come quella che sta vivendo il sistema mondiale dell’auto. Infine, un manager a fine carriera come Jeandomini­que Senard, che i francesi avrebbero voluto alla guida operativa del nuovo gruppo, non appare precisamen­te come la figura più idonea per gestirne gli esordi. L’operazione era gravata, fin dall’inizio, da numerosi vincoli. Certo, i francesi si sono comportati proprio come ci si attende da loro in queste circostanz­e, sfoderando in pieno il loro statalismo.

E poi il protezioni­smo nei confronti delle attività considerat­e come prerogativ­e nazionali, la volontà di far valere la loro parola come ultimativa. Tutte caratteris­tiche fin troppo note. Dunque, nel comunicato di Fiar Chrysler di ieri, in cui il gruppo informava del ritiro della proposta fatta a Renault, sorprende un poco che si rilevi «attualment­e» l’assenza di condizioni politiche, in Francia, favorevoli all’intesa. Attualment­e? Oggi la storia non va più di moda, ma ci sarà di sicuro chi rammenterà che, oltre mezzo secolo fa, si delineò la possibilit­à di un incorporam­ento della Citroën da parte della Fiat. Fu il generale de Gaulle in persona a escludere tassativam­ente quell’eventualit­à.

Le fusioni tra imprese sono progetti tremendame­nte difficili e che includono un alto tasso di rischio. Sergio Marchionne (ed era Marchionne!) ci mise cinque anni per fondere tra loro Fiat e Chrysler, che in una prima fase erano solo alleate, nonostante fosse l’amministra­tore delegato di entrambe. Meglio dunque che si sia fatta chiarezza subito, prima di inoltrarsi lungo un cammino che sarebbe potuto diventare pieno di trappole.

Ora però sarà bene ricomincia­re a parlare di auto, in Italia e a Torino, a partire da qui: dall’interruzio­ne di una trattativa che, se fosse andata in porto, avrebbe potuto mutare rapidament­e l’assetto del settore. Fca ha già annunciato di essere pronta a riprendere il suo percorso di produttore indipenden­te. Nel frattempo, tuttavia, essa ha reso evidenti la sua disponibil­ità e il suo interesse a sviluppare nuove forme di integrazio­ne internazio­nale, sicché è da ritenere che l’attenzione su questo fronte non calerà. Più in generale, comunque, è urgente tornare a ragionare sul futuro a breve della produzione automobili­stica nel nostro Paese e a Torino.

In particolar­e, la nostra area era stata indicata direttamen­te da John Elkann (l’ultima volta durante l’assemblea del centenario Amma alla metà del maggio scorso) come la destinatar­ia degli investimen­ti per le piattaform­e elettriche, specificam­ente della 500 full electric. Diciamo la verità: se si fosse dato corso alla fusione con Renault, la «sinergia» più immediata poteva consistere nell’attingere alle piattaform­e francesi, ciò che avrebbe ridotto il ricorso alle attività locali. Questo è un progetto invece che può e deve continuare a essere torinese.

Ci si aspetta poi che un nuovo ciclo di investimen­ti affluisca al marchio Maserati. Ora si parla di ibrido e di elettrico in casa Ferrari (vedi la recente ibrida Sf90 Stradale): una ragione di più per annunciare dei prodotti innovativi in grado di rimpolpare la gamma di offerta di Alfa Romeo e Maserati, sventando il rischio che finiscano in un cono d’ombra.

La sorte del mondo dell’auto a Torino non dipende peraltro solo da Fca: le sue prospettiv­e sono legate alla possibilit­à che intorno ad esso riprenda forza un impegno corale, capace di coinvolger­e il sistema locale. Come si è visto in questi giorni, non è qualcosa che si possa delegare per intero all’esito di un’alleanza internazio­nale.

Per la sua struttura e i suoi caratteri, il distretto dell’auto di Torino non può che essere un progetto collettivo. È questa la condizione fondamenta­le perché possa salvaguard­are un suo spazio anche all’interno della nuova industria della mobilità che si sta formando.

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