AUTO, ADESSO RIPARTIRE DA TORINO
L’ipotesi di fusione tra Fiat Chrysler e Renault è stata considerata dall’inizio con un certo scetticismo da una parte degli analisti del settore dell’automobile. Anzitutto per la sua estrema macchinosità e in secondo luogo perché postulava un matrimonio fra due soggetti, ma ne lasciava fuori un terzo, Nissan, che era strategico per la riuscita dell’intesa. È singolare che si voglia stipulare uno stretto sodalizio fra due gruppi costretti a fare affidamento su un terzo, il quale tiene invece ad affermare la sua sfera di autonomia. In ogni caso, un’eventuale intesa avrebbe dato origine a un’architettura così complicata da sfidare le possibilità di funzionamento in una congiuntura delicata come quella che sta vivendo il sistema mondiale dell’auto. Infine, un manager a fine carriera come Jeandominique Senard, che i francesi avrebbero voluto alla guida operativa del nuovo gruppo, non appare precisamente come la figura più idonea per gestirne gli esordi. L’operazione era gravata, fin dall’inizio, da numerosi vincoli. Certo, i francesi si sono comportati proprio come ci si attende da loro in queste circostanze, sfoderando in pieno il loro statalismo.
E poi il protezionismo nei confronti delle attività considerate come prerogative nazionali, la volontà di far valere la loro parola come ultimativa. Tutte caratteristiche fin troppo note. Dunque, nel comunicato di Fiar Chrysler di ieri, in cui il gruppo informava del ritiro della proposta fatta a Renault, sorprende un poco che si rilevi «attualmente» l’assenza di condizioni politiche, in Francia, favorevoli all’intesa. Attualmente? Oggi la storia non va più di moda, ma ci sarà di sicuro chi rammenterà che, oltre mezzo secolo fa, si delineò la possibilità di un incorporamento della Citroën da parte della Fiat. Fu il generale de Gaulle in persona a escludere tassativamente quell’eventualità.
Le fusioni tra imprese sono progetti tremendamente difficili e che includono un alto tasso di rischio. Sergio Marchionne (ed era Marchionne!) ci mise cinque anni per fondere tra loro Fiat e Chrysler, che in una prima fase erano solo alleate, nonostante fosse l’amministratore delegato di entrambe. Meglio dunque che si sia fatta chiarezza subito, prima di inoltrarsi lungo un cammino che sarebbe potuto diventare pieno di trappole.
Ora però sarà bene ricominciare a parlare di auto, in Italia e a Torino, a partire da qui: dall’interruzione di una trattativa che, se fosse andata in porto, avrebbe potuto mutare rapidamente l’assetto del settore. Fca ha già annunciato di essere pronta a riprendere il suo percorso di produttore indipendente. Nel frattempo, tuttavia, essa ha reso evidenti la sua disponibilità e il suo interesse a sviluppare nuove forme di integrazione internazionale, sicché è da ritenere che l’attenzione su questo fronte non calerà. Più in generale, comunque, è urgente tornare a ragionare sul futuro a breve della produzione automobilistica nel nostro Paese e a Torino.
In particolare, la nostra area era stata indicata direttamente da John Elkann (l’ultima volta durante l’assemblea del centenario Amma alla metà del maggio scorso) come la destinataria degli investimenti per le piattaforme elettriche, specificamente della 500 full electric. Diciamo la verità: se si fosse dato corso alla fusione con Renault, la «sinergia» più immediata poteva consistere nell’attingere alle piattaforme francesi, ciò che avrebbe ridotto il ricorso alle attività locali. Questo è un progetto invece che può e deve continuare a essere torinese.
Ci si aspetta poi che un nuovo ciclo di investimenti affluisca al marchio Maserati. Ora si parla di ibrido e di elettrico in casa Ferrari (vedi la recente ibrida Sf90 Stradale): una ragione di più per annunciare dei prodotti innovativi in grado di rimpolpare la gamma di offerta di Alfa Romeo e Maserati, sventando il rischio che finiscano in un cono d’ombra.
La sorte del mondo dell’auto a Torino non dipende peraltro solo da Fca: le sue prospettive sono legate alla possibilità che intorno ad esso riprenda forza un impegno corale, capace di coinvolgere il sistema locale. Come si è visto in questi giorni, non è qualcosa che si possa delegare per intero all’esito di un’alleanza internazionale.
Per la sua struttura e i suoi caratteri, il distretto dell’auto di Torino non può che essere un progetto collettivo. È questa la condizione fondamentale perché possa salvaguardare un suo spazio anche all’interno della nuova industria della mobilità che si sta formando.