L’energia di Torino batterà il razzismo
Il caso di Eniola e la città che deve scrollarsi di dosso la paura
Da torinese innamorato di questa città, leggere sul «The Guardian» l’articolo di Eniola Aluko non è stato facile né bello. Eni, fortissima attaccante inglese da un anno e mezzo in forza alla Juve, annunciava il suo addio alla Vecchia Signora per tornare in patria con sei mesi di anticipo sulla scadenza del contratto. Il motivo principale della scelta: l’accoglienza difficile e diffidente di Torino. Eni ha origini nigeriane ed è di colore, e ha parlato di una discriminazione strisciante che in più occasioni l’ha ferita. Leggere questo genere di testimonianza non può che fare male. Davvero è questa la mia citta? La mia Torino? Eppure, superato lo smarrimento iniziale, non si può non cogliere nelle sue parole lo spirito dei tempi nel nostro Paese e non solo.
Una comunicazione politica violenta, l’alimentazione delle legittime paure delle persone, l’incertezza alimentata da un contesto economico non facile stanno portando tutti noi alla chiusura, alla durezza e all’ostilità, soprattutto verso coloro che non riconosciamo come immediatamente affini. E’ una deriva pericolosa e va chiamata con il suo nome: razzismo.
Una parola che nella mia carriera è balzata fuori tantissime volte, forse anche troppe. Ma perché? Nel mondo del calcio troviamo tanti giocatori stranieri, di colori, atteggiamenti e religioni diverse, giocatori con cui ho diviso per anni lo spogliatoio condividendo storie personali e relazioni umane sincere. Possibile che questo bellissimo melting-pot non possa fungere davvero da volano per ampliare le vedute di tutti, per educarci alla diversità e all’apertura? Possibile che per certi tifosi (pochi per fortuna) l’insulto razziale sia ancora un modo per sostenere la propria squadra o per “sfottere” gli avversari? In questo senso ha ragione Eni quando dice che sembriamo indietro di 20 anni.
Allo stesso tempo, però, i segnali positivi ci sono e vanno sottolineati, promossi, divulgati e incoraggiati. E qui ci tengo a spendere qualche parola per Torino, che non è la città chiusa, spenta e diffidente che purtroppo Eni ha percepito. Questa è una città piena di energie positive e di umanità straordinaria, piena di esperienze di generosità e di integrazione di successo, piena di slancio nonostante tutto. Basti pensare alle centinaia di associazioni che lavorano per l’inclusione sociale dei più deboli (dunque anche i migranti), alle innumerevoli iniziative culturali, artistiche e sportive che in ogni quartiere tengono vivo un tessuto di comunità che nel mondo accelerato di oggi sono un’ancora di salvezza per moltissime persone.
Per chi come me e come la maggior parte dei lettori di questo giornale è un bianco in un paese europeo, credo sia estremamente difficile poter immaginare che cosa significhi ricevere sguardi diffidenti, battutine o peggio insulti per il colore della propria pelle. Possiamo provarci ma non credo arriveremo mai a percepire questo dolore costante. Eppure, l’unica strada che abbiamo è quella di insistere a cercare di indossare i panni di chi non ha la nostra fortuna o di chi semplicemente è ogni giorno costretto a “giustificarsi” per il proprio aspetto. Quello che noi possiamo fare è non minimizzare, non chiamare goliardia il razzismo, non chiamare tifo la discriminazione. Da questo punto di vista l’articolo di Eni è uno stimolo e per questo dobbiamo esserle grati. Non è ammissibile abbassare la testa davanti all’ignoranza, e ciascuno di noi può fare qualcosa nel proprio piccolo. Il suo è un segnale forte, Torino e tutta l’italia devono riflettere e mostrare il meglio di sé.
Eni ha avuto parole bellissime per la Juventus e per la sua esperienza sportiva, e sono certo che la prossima volta che verrà in città avrà modo di scoprirne le bellezze più nascoste, fatte delle persone meravigliose che la abitano e la animano. Ma Torino deve scrollarsi di dosso la paura per il diverso, per lo straniero, per l’altro. Perché se Eni è una ragazza che ha cultura, talento e possibilità enormi e dunque ha tutte le carte in regola per reagire, non dobbiamo dimenticare che la maggior parte dei migranti non ha gli stessi strumenti, non può decidere di lasciare il paese, non può scrivere su un giornale, non può cercare la propria realizzazione altrove. Una condizione che, non dobbiamo dimenticarlo, riguarda anche molti ragazzi italiani che si spingono all’estero per cercare un futuro migliore e che, se non per il colore della loro pelle, in un mondo spaventato rischiano comunque di essere soli e per sempre stranieri. Questa è la partita che Torino e l’italia devono vincere nei prossimi anni.
Il carattere Questa non è la città chiusa, spenta e diffidente che purtroppo Eni ha percepito