Corriere Torino

«Sono ebreo e canto in arabo»

Dopo 25 anni Moni Ovadia riporta in scena l’alter ego Simkha Rabinovich «È cresciuto ed è indignato. Parla di pandemia del nazionalis­mo israeliano»

- Paolo Morelli

«Vivremo in pace quando saremo stranieri tra gli stranieri». Moni Ovadia delinea il suo personaggi­o, il narratore in esilio Simkha Rabinovich, e a 25 anni di distanza dallo spettacolo che l’ha lanciato, Oylem Goylem, torna a teatro con Dio ride Nish Koshe. L’opera, con le musiche dal vivo della Moni Ovadia Stage Orchestra, sarà alle Fonderie Limone di Moncalieri da martedì a domenica. Al centro c’è di nuovo quel narratore che, dopo aver cercato di «disperders­i nel nulla assoluto», è dovuto tornare indietro, bloccato dai fili spinati e dal nazionalis­mo. Simkha rientra e torna a usare l’umorismo per riflettere, attingendo dalla cultura ebraica. «Inizio — spiega Ovadia — con un prologo sul peggiore tra i muri di oggi, quello della Palestina, che nel silenzio assordante della comunità internazio­nale costringe i palestines­i a una vita d’inferno». Posizioni che, spesso, hanno attirato sull’autore dure critiche da parte della Comunità ebraica, dalla quale è persino uscito in polemica («frequento una sinagoga liberal»). Il tema di Nish Koshe, che in yiddish vuole dire «così così», è l’esilio come condizione costante del popolo ebraico, affrontato dal punto di vista della spirituali­tà «umoristico-paradossal­e». «La sapienza di Simkha Rabinovich è cresciuta e, con le amarezze successive, ha conquistat­o

una forte indignazio­ne. Ora parla in modo esplicito della pandemia del nazionalis­mo israeliano». E, per farlo, usa un’arma potentissi­ma: l’ironia. «C’è la storia del vecchio ebreo che si fa portare a New York, implorando il capitano di una nave — racconta l’autore — ma anche storielle su Mosé. O un uomo che dice: “Il giorno più bello della mia vita è stato una notte, faceva caldo e Dio è entrato nella mia stanza per far sapere a me, ma solo a me, che non esiste”. È tutto giocato sul paradosso». La conclusion­e di questo lungo peregrinar­e in musica, tra battute e storie, alternate a riflession­i profonde, è in Palestina, con una canzone araba. «Perché arabi ed ebrei — dice Ovadia — hanno vissuto fianco a fianco, in armonia, per secoli». È uno spettacolo nato a Torino, dove l’autore tenne, qualche anno fa, una lezione sulla spirituali­tà ed ebbe così l’idea di riprendere il viaggio di Oylem Goylem. «Torino mi rassicura, anche se resto addolorato per non essere stato invitato per anni, da ebreo difendo i diritti dei palestines­i e sono guardato con sospetto. Ma vado per la mia strada». Un po’ come Simkha Rabinovich che, seguito dai suoi musicisti (Maurizio Dehò, Luca Garlaschel­li, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban), porta in giro la cultura ebraica, usando l’umorismo per aprire il mondo. Il lavoro di Moni Ovadia è una continua ricerca e porterà anche a due libri per La Nave di Teseo: il primo, in arrivo, con Dario Vergassola; il secondo, più avanti, sarà un saggio filosofico «per chiudere il cerchio delle mie ricerche sull’umorismo».

Martedì alle Fonderie

«Dio ride» è nato durante una lezione a Torino: unisce musica, umorismo e riflession­e

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Sul palco Moni Ovadia nei panni del narratore in «Dio ride Nish Koshe»

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