Corriere Torino

Addio a Pansa, cronista (anche) di una Torino che non c’è più

- Di Marco Imarisio

Giampaolo Pansa amava Torino. E lo ha fatto fino all’ultimo. Ma forse la parola amore non rende bene l’idea. Era un sentimento che ne conteneva tanti, era un impasto di affetto e di scetticism­o, di attrazione verso una realtà che magari si riesce a capire, senza però adeguarsi fino in fondo alle sue logiche. Amava quella che è stata la città della sua vita come un provincial­e può amare una capitale a lungo immaginata, poi vissuta e infine raccontata nei suoi anni più brutti.

Testimone delle lotte degli operai Fiat e della parabola folle di Prima Linea, non ha mai smesso di amare questa città di un amore fatto di affetto e scetticism­o

La conosco bene, quella sensazione. Anche i miei erano di Casale Monferrato, papà era stato compagno di scuola e di giochi del giovane Giampaolo, ed entrambi, separati all’anagrafe da pochi mesi, erano poi partiti per fare le superiori a Torino. Quando si rividero, alla presentazi­one di un suo libro, tra un abbraccio e un sorriso Pansa gli disse un «munfrin per sempre», che era una rivendicaz­ione di identità, l’ammissione del fatto che possiamo girare quanto vogliamo, ma siamo le nostre radici, non puoi fuggire da quello che sei. Le sue telefonate contenevan­o sempre un «come va a Casale?».

Perché si scrive? Perché lui lo ha fatto fino all’ultimo, come vorremmo fare tutti noi? Forse il successo di tanti italiani, non solo giornalist­i, è la risposta al complesso di inferiorit­à della provincia.

«Scrivo da un paese che non c’è più». Ieri, nel ricordare Pansa, lo hanno citato tutti, questo incipit sulla tragedia del Vajont. Partì da Torino, quella sera del 9 ottobre del 1963. Due anni prima era entrato a La Stampa come praticante, redazione Province. Dopo aver chiuso in tipografia la prima edizione, venne inviato a Longarone in compagnia di un inviato navigato come Francesco Rosso. Quando arrivò, un collega di un altro giornale, Guido Nozzoli, gli chiese: «Hai mai visto la guerra?». Lui fece di no con la testa. L’altro replicò secco: «Vai avanti, e la vedrai». Pansa avanzò, e scrisse quell’attacco memorabile.

Ma tra quel battesimo del fuoco così improvviso, aveva appena 28 anni, pochissimi per un inviato, e il passaggio al ruolo di venerato maestro, anche se lui scherzava spesso sul fatto di essere giunto alla terza e ultima fase, quella del «vecchio coglione», ma non era affatto vero, ci fu anche e soprattutt­o Torino.

La città della Fabbrica, la città degli anni di piombo e delle sue mille contraddiz­ioni. La città con un concetto tutto suo della disciplina, sabauda e militare, che diventava stile di vita, abnegazion­e e capacità di stare al proprio posto. Pansa raccontava spesso della sua prima lezione di Storia delle dottrine politiche all’università. In cattedra c’è il grande Luigi Firpo, che per un’ora e mezza parla nel silenzio generale delle abitudini sessuali degli aztechi. Alla fine, Pansa alza una mano e chiede spiegazion­i su quella lezione così inusuale. «L’argomento non c’entra nulla con quello che voi studierete, ma è il modo per dimostrarv­i che qui comando io e faccio quello che mi pare». Fu il mio vero benvenuto a Torino, ricordava Pansa.

Molti altri grandi suoi incipit e articoli, perché ce ne furono davvero tanti, riguardano Torino. «Mirafiori, ventiquatt­ro ore dopo le rivoltella­te in faccia a Casalegno. C’è la Torino mitica che abbiamo sempre immaginato: il cielo ripulito dal vento, la geometria dei grandi viali, le montagne, la fabbrica e la classe operaia. Ma non è più tempo di miti. Il terrorismo sgretola non soltanto Torino, ma anche le nostre antiche certezze. Chi va in cerca di risposte rassicuran­ti, trova anche parole che gelano. Chi spera di ascoltare una voce sola, di condanna senza riserve, deve prendere atto che siamo entrati in un’età crudele, gonfia di rancori e di paura. Ore 14 in corso Tazzoli. Sta entrando il secondo turno...».

Chi ha una certa età non può dimenticar­e quel reportage dai cancelli della Fabbrica, che dimostrava come il fronte unico contro il terrorismo fosse meno compatto di come veniva raccontato. Era una semplice cronaca. Cosa c’è di meglio che raccontare la verità? Raccontare i fatti come stanno, senza sovrastrut­ture e illusioni? «Questa è la storia di quattro morti. Un operaio, una maestra d’asilo, uno studente e il proprietar­io di un piccolo bar. I primi due erano terroristi e sono finiti sotto i colpi della Polizia. Gli ultimi due sono cittadini inermi e sono stati assassinat­i dal terrorismo. È una storia esemplare della stupida ferocia che muove gli squadroni della morte; credono di combattere una guerra e sono soltanto capaci di piccole, inutili, opere di sterminio».

Anche qui, chi ha memoria ci è già arrivato. La storia del bar dell’angelo, una delle più assurde della lunga stagione del terrorismo. Madonna di Campagna, «una vecchia borgata operaia al confine della città, un posto modesto, con un paio di vecchie réclame della birra Moretti... qui una volta cominciava Torino, lo dice ancora il cartello del dazio che ormai non funziona più, con la pesa per i carri e la tettoia per ripararsi dalle intemperie». C’è un libro del marzo 1980, Storia italiana di violenza e terrorismo, ristampato qualche anno fa, che raccoglie i migliori articoli di Pansa ed è quasi per intero dedicato a Torino. La vita agra degli lavoratori Fiat, i 35 giorni, la parabola folle di Prima linea. Ma sono tanti i «pezzi», lui li chiamava così, perduti negli archivi, su quegli anni dove veniva buio presto, la gente rientrava di corsa in casa, e per strada non c’era nessuno. Giampaolo Pansa è stato il grande cronista di una Torino che non esiste più, ma che non andrebbe mai dimenticat­a. Per ricordarci ogni tanto, tra un mugugno e l’altro, della fortuna che abbiamo.

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