Corriere Torino

La Memoria non deve essere imposta come fosse un dovere

- Di Davide Ferrario

Chiarisco subito, per non incorrere in equivoci: non si può non sottoscriv­ere quello che ha scritto ieri su queste colonne Angelo Rossano rispetto all’attuale ondata di gesti antisemiti avvenuti in città. La condanna è totale. Ma non ci si può nemmeno esimere dal farsi qualche domanda sui processi che si sono innescati da quando esistono il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime (italiane) delle foibe. Queste ricorrenze si basano su due concetti impliciti. Il primo è che fissano per sempre la memoria come qualcosa non solo di accertato, ma di condiviso.

Il secondo è che l’esempio fornito dalla memoria e dal ricordo possa preservare dalla ripetizion­e degli errori del passato. Sono idee piene di buone intenzioni e di lodevoli propositi, ma molto ambigue, perché partono dall’assunto che la memoria sia qualcosa di dato una volta per tutte. Ma basta leggere il primo capitolo de I sommersi e i salvati di Primo Levi per rendersi conto che si tratta di questione molto più complessa. La memoria è un processo in continuo movimento, una dialettica sempre aperta tra cosa si ricorda e come; e tra quello che si sceglie di non ricordare. Non di dimenticar­e o di obliare, ma di gerarchizz­are dentro il meccanismo del ricordo. Un esempio pratico. Quindici anni fa, proprio per girare La strada di Levi, ci introducem­mo sotto mentite spoglie in una riunione dell’npd, il partito neonazista tedesco allora reduce da un successo elettorale. In mezzo alla paccottigl­ia e alle chiacchier­e banalmente neonaziste, mi colpì il dialogo che ebbi con una signora di quarant’anni, madre di due figli, che mi disse più o meno questo: “Siamo stanchi che ci vengano rinfacciat­e cose che non abbiamo commesso. Non le ho commesse io né i miei figli. Io voglio pensare al futuro”. Quella donna non era una negazionis­ta. Anche lei ammetteva l’esistenza dei lager e dello sterminio, ma non ne condividev­a le conseguenz­e della memoria. Erano cose accadute prima di lei, perché chiamarla a correo solo in quanto tedesca, sessant’anni dopo i fatti?

Scrive Levi: “È certo che l’esercizio (in questo caso la frequente rievocazio­ne) mantiene il ricordo fresco e vivo (…) ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dell’esperienza, cristalliz­zata, perfeziona­ta, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese.” Se la stessa testimonia­nza diretta rischia di diventare uno stereotipo, cosa dire dell’istituzion­alizzazion­e della Memoria sancita da date come il 27 gennaio o il 10 febbraio? Non sono forse queste giornate dei macrostere­otipi che – con una terribile eterogenes­i dei fini – finiscono per svuotare il senso del ricordo originale e causano la reazione di chi quel ricordo non intende condivider­e? Se la memoria diventa un dovere, e non un processo esperienzi­ale, non è ovvio aspettarsi che qualcuno si ribelli a quell’imposizion­e nella maniera insieme più radicale e più banale, negandola?

Primo Levi è morto nel 1987, il Giorno della Memoria è stato istituito nel 2005. Non ci è dato avere una sua opinione in proposito. Ma stiamo attenti alle banalità che si sentono spesso riguardo al fatto che bisogna conoscere il passato per preparare il futuro. La storia non funziona con questa logica da precettore. In mezzo ci sta il presente, che del passato fa una rielaboraz­ione continua. La memoria sta sempre nel tempo in cui viviamo, non fuori da esso.

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