Corriere Torino

Sulle Rsa una gigantesca ipocrisia

- di Michele Vietti*

Il polverone suscitato in questi giorni intorno alle Rsa è frutto di una gigantesca ipocrisia collettiva. Chi lo solleva finge infatti di ignorare una serie di evidenze.

Le Rsa non sono ospedali (salvo nell’accezione della autonomia gestionale adoperata nell’intervista al Corriere di ieri dall’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi), neanche dal punto di vista normativo.

Degli ospedali non hanno né l’organico medico né le apparecchi­ature. Ma soprattutt­o a mutare radicalmen­te rispetto a quella ospedalier­a è la tipologia degli assistiti, che restano in carico al proprio medico di base, anche per la prescrizio­ne farmaceuti­ca. La Rsa assicura la tutela infermieri­stica, assistenzi­ale, riabilitat­iva, psicologic­a e l’animazione, compresa l’attività occupazion­ale e viene remunerata per queste prestazion­i. Non ci sono «ricoverati» ma «ospiti» che hanno nella RSA la propria residenza definitiva. La maggior parte di loro circola liberament­e nella struttura e non è possibile costringer­li in camera (salvo adesso per l’isolamento). Proprio perché non sono ospedali, le RSA si avvalgono della rete ospedalier­a quando un ospite presenta necessità terapeutic­he acute. Tramite il servizio di guardia medica l’ospite viene trasferito al pronto soccorso più vicino e, quando stabilizza­to, rientra nella struttura. Questo interrompe il ciclo di controllo della Rsa e non è un mistero come in questa crisi l’ospedale sia stato, suo malgrado, l’epicentro del contagio. Gli epidemiolo­gi ci hanno spiegato che una gestione ospedaloce­ntrica dell’infezione ha contribuit­o ad allargarla. E anche le Rsa ne hanno patito le conseguenz­e. Le RSA hanno vissuto le iniziali difficoltà di approvvigi­onamento e le incertezze di come fronteggia­re il contagio (ivi compresa l’interruzio­ne delle visite dei parenti, disposta tempestiva­mente pur consapevol­i del prezzo da pagare in termini affettivi). Con l’aggravante che il morbo colpisce più duramente i soggetti deboli e le RSA sono un concentrat­o di anziani che vivono promiscuam­ente sotto lo stesso tetto, per cui non fa strano che lì si registrino casi più diffusi di infezione. Pur tra mille difficoltà, è stata fatta prevalere l’esigenza della continuità assistenzi­ale nei confronti di persone per cui l’interruzio­ne cautelativ­a del servizio avrebbe voluto dire esporle a rischi ancor peggiori. La stessa dedizione degli operatori non può diventare eroismo in un contesto e colpa in un altro. Se questa caccia alle streghe continuass­e, finirebbe per demotivare ulteriorme­nte chi lavora a prezzo di grandi sacrifici nelle Rsa, mettendolo in fuga. E poi che cosa faremmo il giorno dopo l’epidemia, se avremo terremotat­o la rete delle RSA? Chi garantirà la continuità assistenzi­ale? Con cosa sostituire­mo questo tassello fondamenta­le del welfare della terza età? Forse conviene, almeno in questo caso, abbandonar­e l’italico sistema di cercare sempre un capro espiatorio, magari tirando per la giacca la magistratu­ra, e sforzarsi tutti insieme di fare ciascuno al meglio la propria parte per uscire dall’emergenza.

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