Ho le mie mascherine, l’ultimo lusso
Uscita rapida con protocollo impervio: «Al rientro non toccare nulla»
Le mascherine esistono. Io le ho viste. E pure comperate. Alleluja. È capitato ieri. Costretto a raggiungere la farmacia all’angolo in cerca di dispositivi medici per monitorare le intemperanze della mia glicemia, all’arrivo m’ha fulminato la visione del cartello «disponibili mascherine». E non mi sono voluto negare il lusso.
Trattasi di mascherine di cotone, che mi garantiscono lavabili fino a venti volte. Già mi ci vedo, nei panni della bella lavanderina che, anziché lavare i fazzoletti per i poveretti della città, lava le mascherine sue. Sull’efficacia protettiva contro il virus non scommetterei: ho idea che sia all’incirca pari a quella di una capanna di bambù in caso di esplosione nucleare. Ma possederne ben cinque esemplari (di mascherine, non di capanne di bambù) è gratificante: uno status symbol, insomma. Un po’ come possedere un’auto d’epoca: non sai bene che fartene, però vuoi mettere la soddisfazione? E dello status symbol hanno pure il prezzo: cinque euro e novanta centesimi cadauna. Ma ho fatto comunque un buon affare, mi rassicura un amico che in un’altra farmacia ha acquistato lo stesso prodotto a 7 euro.
Chiaro che anch’io bramerei possedere una mascherina FFP3, o quantomeno FFP2, meglio note come i Gronchi Rosa delle mascherine, il Sacro Graal dei presidii sanitari: so bene che è un’ambizione stolta ed egoistica, ma quale ambizione non lo è? Intanto, non dovrò più esibire, nelle mie rare sortite, la ciancicata mascherina da verniciatore che mi ha accompagnato in questi primi quaranta giorni di domiciliari, accessorio fantozziano che mi relegava spietatamente tra i paria della nuova società viralizzata.
Purtroppo non c’è pace per noi umani, e anche la mia letizia è durata poco. Sulla via del ritorno verso la fortezza domestica, un cupo pensiero è venuto a turbarmi. Nel preciso istante in cui infilavo la chiave nel portone mi si è ripresentato alla memoria il sinistro «protocollo per l’ingresso in casa» in cui mi sono imbattuto l’altro giorno durante un’avventata escursione in rete.
Fin dall’inizio della reclusione ho adottato cautele che ritenevo eccezionali, tipo spogliarmi nell’androne e gettare nel cassonetto la tuta ginnica indossata per affrontare il mondo esterno. Ma le nuove prescrizioni apprese all’accademia di Internet — e dettate non so da chi... — mi hanno spalancato impensati abissi di terrore. «Quando torni a casa cerca di non toccare niente» è di per sé un ordine perentorio e impervio: «non toccare niente» implica forse la levitazione? o l’apertura delle porte con la sola forza del pensiero? E per fortuna non ho né cani né gatti, altrimenti mi spetterebbe l’ingrato compito di «disinfettare le zampe dell’animale se è uscito»: non so come mi porrei, a disinfettare le zampe a un rottweiler. E soprattutto non so come si porrebbe il rottweiler.
E poi ci sono i lavaggi: secondo il «protocollo» devono riguardare non soltanto le mani e il resto del corpo, ma anche — e con la candeggina — «le superfici di borse e altri oggetti che hai portato fuori», e qui la povertà mi soccorre sollevandomi dall’incombenza di lavare borse di Vuitton con la candeggina. Però, aggiunge il «protocollo», conviene lavare, con acqua e sapone o alcol, pure gli occhiali (e fin qui ci sto) e il telefono: quest’ultima prescrizione mi preoccupa, perché il mio vetusto iphone non ha per nulla l’aspetto - né, temo, le caratteristiche - di un sommergibile.
Ma poi, alla fin fine, a che servirebbe darsi tanto pensiero? Lo spietato «protocollo» in ultimo mi rivela che «non è possibile effettuare una disinfezione totale, l’obiettivo è ridurre il rischio». Ovvero: per quanto faccia, se mi tocca mi tocca. Ma se mi tocca sarò un defunto molto pulito.