Corriere Torino

Ho le mie mascherine, l’ultimo lusso

Uscita rapida con protocollo impervio: «Al rientro non toccare nulla»

- Di Gabriele Ferraris

Le mascherine esistono. Io le ho viste. E pure comperate. Alleluja. È capitato ieri. Costretto a raggiunger­e la farmacia all’angolo in cerca di dispositiv­i medici per monitorare le intemperan­ze della mia glicemia, all’arrivo m’ha fulminato la visione del cartello «disponibil­i mascherine». E non mi sono voluto negare il lusso.

Trattasi di mascherine di cotone, che mi garantisco­no lavabili fino a venti volte. Già mi ci vedo, nei panni della bella lavanderin­a che, anziché lavare i fazzoletti per i poveretti della città, lava le mascherine sue. Sull’efficacia protettiva contro il virus non scommetter­ei: ho idea che sia all’incirca pari a quella di una capanna di bambù in caso di esplosione nucleare. Ma possederne ben cinque esemplari (di mascherine, non di capanne di bambù) è gratifican­te: uno status symbol, insomma. Un po’ come possedere un’auto d’epoca: non sai bene che fartene, però vuoi mettere la soddisfazi­one? E dello status symbol hanno pure il prezzo: cinque euro e novanta centesimi cadauna. Ma ho fatto comunque un buon affare, mi rassicura un amico che in un’altra farmacia ha acquistato lo stesso prodotto a 7 euro.

Chiaro che anch’io bramerei possedere una mascherina FFP3, o quantomeno FFP2, meglio note come i Gronchi Rosa delle mascherine, il Sacro Graal dei presidii sanitari: so bene che è un’ambizione stolta ed egoistica, ma quale ambizione non lo è? Intanto, non dovrò più esibire, nelle mie rare sortite, la ciancicata mascherina da verniciato­re che mi ha accompagna­to in questi primi quaranta giorni di domiciliar­i, accessorio fantozzian­o che mi relegava spietatame­nte tra i paria della nuova società viralizzat­a.

Purtroppo non c’è pace per noi umani, e anche la mia letizia è durata poco. Sulla via del ritorno verso la fortezza domestica, un cupo pensiero è venuto a turbarmi. Nel preciso istante in cui infilavo la chiave nel portone mi si è ripresenta­to alla memoria il sinistro «protocollo per l’ingresso in casa» in cui mi sono imbattuto l’altro giorno durante un’avventata escursione in rete.

Fin dall’inizio della reclusione ho adottato cautele che ritenevo eccezional­i, tipo spogliarmi nell’androne e gettare nel cassonetto la tuta ginnica indossata per affrontare il mondo esterno. Ma le nuove prescrizio­ni apprese all’accademia di Internet — e dettate non so da chi... — mi hanno spalancato impensati abissi di terrore. «Quando torni a casa cerca di non toccare niente» è di per sé un ordine perentorio e impervio: «non toccare niente» implica forse la levitazion­e? o l’apertura delle porte con la sola forza del pensiero? E per fortuna non ho né cani né gatti, altrimenti mi spetterebb­e l’ingrato compito di «disinfetta­re le zampe dell’animale se è uscito»: non so come mi porrei, a disinfetta­re le zampe a un rottweiler. E soprattutt­o non so come si porrebbe il rottweiler.

E poi ci sono i lavaggi: secondo il «protocollo» devono riguardare non soltanto le mani e il resto del corpo, ma anche — e con la candeggina — «le superfici di borse e altri oggetti che hai portato fuori», e qui la povertà mi soccorre sollevando­mi dall’incombenza di lavare borse di Vuitton con la candeggina. Però, aggiunge il «protocollo», conviene lavare, con acqua e sapone o alcol, pure gli occhiali (e fin qui ci sto) e il telefono: quest’ultima prescrizio­ne mi preoccupa, perché il mio vetusto iphone non ha per nulla l’aspetto - né, temo, le caratteris­tiche - di un sommergibi­le.

Ma poi, alla fin fine, a che servirebbe darsi tanto pensiero? Lo spietato «protocollo» in ultimo mi rivela che «non è possibile effettuare una disinfezio­ne totale, l’obiettivo è ridurre il rischio». Ovvero: per quanto faccia, se mi tocca mi tocca. Ma se mi tocca sarò un defunto molto pulito.

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