Il calvario della cultura è solo all’inizio
Il dibattito sulla cultura nel tempo del virus ha il merito, comunque vadano le cose, di stimolare al confronto un ambiente che vedevo da tempo ripiegato su se stesso e sui propri guai di piccolo cabotaggio; e non trovava occasioni e spazi per esprimere visioni alte e obiettivi diversi dalla pura difesa di posizioni consolidate, o dallo sforzo di occuparne di migliori. Molte delle idee che su queste pagine vanno esponendo alcune delle risorse intellettuali più creative della città circolavano sottotraccia.
Già prima della catastrofe, ma stentavano a emergere nel clima depressivo di una Torino senza guida e senza più ambizioni. Averle portate alla luce, chiamando tutti a unire gli sforzi per progettare un domani diverso, è forse l’unico effetto virtuoso che posso riconoscere al tempo sbandato in cui l’epidemia ci ha precipitati. Ma è impossibile trascurare, oggi più che mai, l’aspetto economico che condizionerà pesantemente qualsiasi progetto di ripresa. Capisco che si tratta di materia vile, però mi pare giusto sottolineare alcune criticità. Valga per tutti l’esempio delle prescrizioni del Comitato tecnico-scientifico per riaprire i teatri all’inizio di giugno impongono regole di sicurezza stringenti, con adeguamenti dei locali e distanziamento tra gli spettatori in sala e gli artisti sul palco, con rigidi limiti alle capienze: si parla di un massimo di 200 persone nelle sale al chiuso, mille negli spazi all’aperto. In simili condizioni la riapertura si trasformerà in un disastro finanziario. Aumenteranno le spese (dalle igienizzazioni al personale di sorveglianza) e caleranno i profitti, perché un teatro da 1200 spettatori che può ospitarne al massimo 200 lavora in perdita. E uno che di posti ne ha solo 200, quanti potrà venderne distanziando di un metro ogni spettatore? Sessanta, a essere generosi? Certo, si risparmierà sui costi artistici: niente spettacoli fastosi, niente scenografie, trionferanno i monologhi e i concerti solisti. Ma così resteranno a spasso stuoli di artisti e di tecnici. E quanto vorrà pagare il pubblico a pagare per uno spettacolo di quel genere? Diciamo pure trenta euro, se c’è un artista in grado di riempire i duecento posti che equivalgono ai 1200 del tutto esaurito in tempi normali: fanno seimila euro d’incasso. Togli la Siae, le tasse, gli stipendi, le utenze, il service, le spese vive e magari un po’ di pubblicità: quanto rimane per il cachet dell’attore o del musicista, e per l’onesto guadagno dell’organizzatore? Che dire poi di uno spettacolo da 60 spettatori (in un teatro da 200), per cui si può ipotizzare un biglietto massimo da 20 euro? Frutterà se tutto va bene 1200 euro lordi. E non parlo dei teatri più piccoli, degli artisti di minor richiamo. Un teatro sta in piedi, con queste cifre? Forse un teatro pubblico, che può contare sulle sovvenzioni di Stato, Regione, Comune, fondazioni bancarie. Ma uno privato? Un teatro che vive del suo, grazie agli incassi? La risposta è evidentemente no. Neppure i teatri sovvenzionati possono però stare tanto allegri, con le casse pubbliche già stremate prima della bufera-covid: da anni i fondi per la cultura sono in calo, immaginate un po’ cosa accadrà adesso, con l’economia depressa, il tracollo del gettito fiscale e il debito pubblico al 152 per cento. È velleitario parlare di «diversa distribuzione delle risorse», se le risorse mancano. Altra incognita sono gli spettatori. Accetteranno le limitazioni? Andare a teatro è un’attività sociale, prevede spesso gruppi di amici che vogliono trascorrere una serata in compagnia. In compagnia sparpagliati per la platea? Mah. Può essere, però la vedo dura. E c’è pure l’aspetto psicologico. Il virus non scomparirà domani, e finché non sarà debellato qualsiasi attività comporterà una certa dose di rischio. Prima di acquistare il biglietto per uno spettacolo teatrale, ciascuno di noi si domanderà se il gioco vale la candela. Per assurdo, il problema sarà meno impellente se e quando riapriranno le discoteche e i club frequentati in prevalenza dai giovani, per loro natura meno apprensivi e nei fatti meno esposti alle conseguenze del virus. Purtroppo il pubblico dei teatri è in media più avanti negli anni, e dunque più cauto perché più vulnerabile. Anche per questa ragione gli spettatori potrebbero scarseggiare, almeno in una prima fase. Mi spiace essere il solito pessimista, ma — felice se verrò smentito — ho motivo di temere che per la gente dello spettacolo la sofferenza non finirà a giugno: il calvario è soltanto all’inizio.