Ferran Adrià: «Il cibo è cultura, Torino lo valorizzi»
«La vostra come tante grandi città europee è cresciuta in una maniera impressionante negli anni Duemila. Ora un museo sul food»
Ferran Adrià ha un posto d’onore nella cucina internazionale, Torino ha un posto nel cuore di Ferran Adrià. Se fosse un sillogismo, piazzerebbe la nostra città al centro della galassia gastronomica. E forse un po’ è vero, almeno in potenza. Il fatto è che il più rivoluzionario dei cuochi viventi – prima di chiudere nel 2011 il suo leggendario ristorante Elbulli in Costa Brava inanellò cinque primi posti nella classifica Fifty Best Restaurants con un quadriplete dal 2006 al 2009 – trovò in un torinese il suo miglior cliente: Bob Noto. «Faccio il ferramenta», diceva di sé Bob, ed era vero, ma nei giorni di festa girava il mondo con l’adorata moglie Antonella a scoprire ristoranti che sarebbero diventati grandi. Palato assoluto, lingua senza peli e occhio clinico: cioè capace di sentire, di parlar senza lusinghe e di fotografare il cibo come fosse design. Ferran lo amò da quel primo pasto del 1993, tanto che dopo il pranzo la conversazione fu così potente che Adrià disse a Bob e Antonella: tornate questa sera, devo farvi conoscere meglio il mio lavoro. I voli tra Torino e Barcellona si fecero intensi anche perché Noto e Giorgio Grigliatti (altro grande gourmet cittadino) avevano presentato il catalano alla famiglia Lavazza che nel 2001 ne fece il proprio consulente. Anni dopo l’azienda gli avrebbe anche affidato la supervisione del ristorante Condividere, inaugurato nel complesso della «Nuvola» l’8 giugno 2018. All’apertura di Condividere c’erano tutti, ma mancava Bob. Gli avevamo dato l’addio al cimitero monumentale l’anno prima con la sigla, scelta da lui, di That’s all, folks. Irriverente fino alla fine. Ma Noto è rimasto, forte. Anche nel cuore di Adrià: tanto da averlo inserito nel suo nuovo libro «What is cooking» in uscita a fine giugno per i tipi di Phaidon.
In «What is cooking» una fotosequenza ritrae Noto durante un pasto. Cosa lo rendeva così speciale?
«Prima di tutto, era un grande, grande amico. E poi il miglior gourmet del mondo, l’uomo con la più intensa sensibilità gastronomica che abbia conosciuto nella mia vita».
Bob e Grigliatti la presentarono a Lavazza, di cui è consulente da vent’anni. Come ha visto cambiare Torino?
«La vostra come tante grandi città europee è cresciuta in una maniera impressionante negli anni Duemila. E la Nuvola, la nuova sede dell’azienda, è un buon esempio della trasformazione in corso».
In Spagna, tanti ristoranti di suo fratello Albert – da Barcellona a Ibiza – sono di fatto “attrazioni turistiche”. Ci dà un consiglio per attirar visitatori con la gastronomia?
«Il cibo è cultura e come tale va valorizzato. Dunque penso che una strada su cui investire possa essere la realizzazione di musei o l’organizzazione di eventi e laboratori che abbiano il cibo e l’alimentazione come protagonisti».
C’è chi ritiene il vermouth un’invenzione americana, chi spagnola; pochi, nel mondo, sanno che è nato a Torino. Come possiamo comunicare meglio?
«Se c’è una cosa che l’italia sa fare bene è comunicare. Semplicemente bisogna continuare a farlo, non mollare: tutto il mondo ammira la gastronomia italiana, vuole conoscerla, poterla vivere».
Anni fa ha creato la Fondazione Elbulli, un centro di ricerca e sviluppo dedicato alla gastronomia. State analizzando gli effetti della pandemia sui ristoranti?
«Sì, stiamo lavorando principalmente sul tema della gestione dei locali con Caixabank – la banca partner della Fondazione – e stiamo preparando un campus online che inizierà il 15 giugno».
Crede che nei prossimi mesi i ristoranti indirizzeranno i propri menu verso una cucina più rassicurante?
«Questi non sono giorni in cui ragionare sullo stile della cucina, sulla creatività, ma solo sul tema economico. La domanda prioritaria cui dare risposta è: come potrà un’impresa resistere ai mesi di crisi drammatica che ci aspettano?»
In questi giorni molti hanno locali hanno avviato il servizio di delivery. Pensa faccia parte del futuro della ristorazione? «Ognuno decide come organizzarsi, l’importante è avere un modello di business sostenibile economicamente. Credo che in momenti di crisi come questa il delivery possa essere un buon strumento di marketing».
Il ristorante Condividere riaprirà il 5 giugno, e l’8 compirà due anni. Come l’ha visto crescere?
«Il lavoro di Federico (Zanasi, lo chef ndr), della sua brigata e della famiglia Lavazza ha permesso di consolidare il progetto. Sono certo continuerà a evolvere di anno in anno».
In “What is cooking” – che fa parte della Bullipedia, l’enciclopedia avviata dalla Fondazione – ripercorre il rapporto tra l’umanità e il cibo. Può esistere una civiltà senza cucina?
«No. L’homo habilis è stato il primo cuoco; preistorico, certo, ma cuoco. Da allora, in due milioni e mezzo di anni, siamo arrivati a oggi, sempre trasformando il cibo. La cucina ci ha accompagnato e ci accompagnerà sempre».
❞ La ricetta «Se c’è una cosa che l’italia sa fare bene è comunicare Semplicemente bisogna continuare a farlo, non mollare»