Il Popolo della Gazzetta Andavamo sempre contro, abbiamo dato uno scossone alla città
Il giornale della Dc con una redazione dove lavoravano comunisti ed ex fascisti. E per uno scoop si inventarono anche Radio Hesperia
Oggi c’è un coworking nell’edificio di corso Valdocco dove lavoravano i cronisti della Gazzetta del Popolo. Il giornale, che ha cessato le pubblicazioni nel 1983, è stato per 135 anni una delle voci di Torino. Fucina di talenti, inventore della Terza pagina, temibile avversario della Stampa. Il quotidiano, vicino alla Dc, è stato il protagonista di un’era del giornalismo dove a contare non erano i clic. «A mezzanotte, controllavamo i “buchi” sfogliando gli altri giornali. Se avevano una notizia in più, il direttore ti chiamava subito. Per evitarlo correvamo come disperati dalla mattina». Enrico Marenco, 85 anni, dopo la gavetta alla Rai, nel 1965 è assunto dala Gazzetta del Popolo diventandone capocronista.
Cos’era la Gazzetta del Popolo?
«Un giornale libero. Il simbolo era la statua della Libertà di Stampa. Con l’effige del primo direttore Bottero e un piede su un cappello da prete».
Nel Dopoguerra è di proprietà della Democrazia Cristiana. Che aria tirava in redazione?
«Eravamo una comunità. Molti giornalisti erano di sinistra, ma c’era anche un caposervizio come Alfredo Toniolo. Era un ex gerarca fascista. Così autorevole che gli allenatori della Nazionale pendevano dalla sua labbra».
Che ruolo aveva la Gazzetta? Schiacciata tra la Stampa e l’unità del Pci?
«Andavano sempre contro. Abbiamo raccontato la chiusura dei manicomi. E i baroni di Medicina. La Stampa preferiva non toccare i Dogliotti, era una famiglia molto legata agli Agnelli. Quelle inchieste
hanno dato uno scossone alla città».
Che Torino era?
«In mano alla Dc fino all’elezione di Novelli. Chiusa e bacchettona».
E gli Anni di piombo?
«In quel periodo la nostra redazione ospitava tutti i corrispondenti degli altri giornali. C’era un continuo confronto. Mentre la Stampa non voleva nessuno».
Chi è passato da voi?
«Tanti. Anche Walter Tobagi. Camminava come un abate davanti a Mirafiori. Tranquillo e pacato, ma riusciva sempre a trovare una notizia».
Nelle fabbriche si respirava l’aria del conflitto?
«Ho raccontato gli scontri di corso Traiano. Mi sono preso le pietre e le manganellate. Mi ricordo il vicecommissario Voria che incitava la gente a fare casino. Ho raccontato quello che ho visto in tribunale».
Non aveva paura?
«Mi ricordo il primo servizio di nera. “Alza il sedere e corri”. Era l’ordine del direttore. C’era disciplina. E non valevano scuse».
Eravate spregiudicati?
«Con Ito De Rolandis facevamo le finte interviste radio. Perseguitavamo i politici come l’onervole Fiandrotti. Era il periodo delle emittenti libere. Mi ricordo ancora: “Siamo di Radio Hesperia, Onorevole cosa ne pensa dei meridionali che coltivano i pomodori nella vasca da bagno?”».
Disposti a tutto...
«Nel ‘66 Vito Napoli, il fratello di Osvaldo, si butta su un delitto di Chivasso. C’è un cadavere in una valigia. I carabinieri arrestano la moglie e l’amante. Quando lei viene scarcerata, Vito la “cattura” e la porta nella sua garçonniere. Quelli di Stampa l’hanno cercata per giorni».
Che colpo!
«Ci è andata peggio con la Beauregard. Non essendoci novità, con Ito portiamo un mazzo di fiori sulla tomba di questa prostituta uccisa in modo misterioso. Monta la storia sui giornali. Ma ci smaschera la Stampa. Avevamo lasciato la carta del fioraio».
Ha lavorato con tanti colleghi importanti?
«Mi ricordo il giovane Ezio Mauro. Molto bravo. Nel ‘70 lo mandano a intervistare Umberto Agnelli per la candidatura. Poco dopo è andato alla Stampa».
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