Corriere Torino

Quei 20 milioni di costi per il personale E gli sponsor che latitano

- Christian Benna

Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. Nel caso del Regio tutti conoscono lo spartito, spese troppo alte, poche sponsorizz­azioni, costi del personale insostenib­ili, debiti elevati con fornitori e con le banche. Ma in tanti a Palazzo Civico sperano che in quello «spazio che racchiude l’universo» di mozartiana memoria si materializ­zi un cavaliere bianco con un assegno da 2,5 milioni. Quest’anno le fondazioni, Compagnia di San Paolo e Crt, hanno detto «niet». E non sborserann­o per l’ennesima volta i milioni di euro che mancano al Regio per chiudere il bilancio. La musica — almeno quella che suona quando si tappano i buchi — è finita. E il bilancio 2019 rimane sospeso nei disavanzi e nei debiti in attesa di un commissari­o mandato dal governo. Il teatro lirico di Torino non è un’eccezione nel panorama dell’opera italiana che canta bene ma stona con i conti. Anzi il profondo rosso agita i sonni di tanti sindaci e direttori artistici della Penisola. E Torino non è nemmeno tra i teatri più spendaccio­ni. Ma i 20 milioni di costi per il personale difficilme­nte saranno gestibili per gli anni a venire, soprattutt­o a fronte di costi, seppure in discesa, da 37 milioni l’anno. Oggi il Regio ha una liquidità in cassa di poche centinaia di migliaia di euro. I debiti con le banche, benché in via di riduzione, sono troppo elevati (28 milioni) per poter continuare a far finta di niente. E quelli con i fornitori, oltre 10 milioni, sono ingestibil­i e rischiano di mandare gambe all’aria centinaia di imprese che lavorano per e con il Regio. Dieci anni fa, quando la crisi finanziari­a mordeva il pianeta e Torino perdeva pezzi di industria, il contributo dei privati alle casse del Regio valeva circa il 30% del totale dei ricavi, quasi 11 milioni. Dieci anni dopo lo sforzo è salito al 41%, pari a 15 milioni. Un sostegno concreto che però è stato ripagato da una gestione pubblica inefficien­te, peraltro sanzionata dalle osservazio­ni dello scorso anno del Ministero dell’economia che ne aveva ravvi

sato, nel periodo dal 2013 al 2017, 11 macro-irregolari­tà. Dalle gestione dei costi del personale e quelle relative ai beni immobili dati dal Comune alla Fondazione al posto dei contributi nel 2011 e nel 2013. Certo non è la stessa musica che si ascolta alla Scala di Milano, dove, in vent’anni i contributi di pubblici e privati hanno sfiorato 1,5 miliardi di euro. Ma anche per Torino è tempo di cambiare direttore d’orchestra. Il Teatro Regio ha migliorato i conti nelle vendite dei biglietti. Ma si tratta di appena 7 milioni di euro per 165 mila spettatori paganti e oltre 300 dipendenti. Troppo poco per giustifica­re, a livello di sostenibil­ità economica, 22 milioni di contributi pubblici e 15 di contributi privati. Il termometro dell’appetibili­tà del Regio, oltre al bel canto e ai movimenti delle orchestre, si potrebbe registrare dalle dinamiche delle sponsorizz­azioni. Quando il grande business ha tutto l’interesse a sporgersi dal loggione del teatro lirico. In questo caso, nonostante l’impegno di aziende come Iren e Intesa Sanpaolo, gli investimen­ti degli sponsor valgono poco più di un milione di euro l’anno. Non abbastanza per cambiare tonalità del bilancio che rimane in profondo rosso. I soci fondatori hanno sempre dato una mano. Certo mancano sul palcosceni­co big come Fiat Chrysler, ma all’appello hanno risposto Reale Mutua, Italgas, Iren, Unione industrial­e. E anche artigiani come Gobino non fanno un passo indietro, ma lasciano un contributo di 10 mila euro l’anno. Lavazza invece ha scelto di sostenere la Filarmonic­a. Al teatro alla Scala, dove la biglietter­ia contribuis­ce per il 25% degli introiti, gli sponsor privati valgono quasi il 10% dei ricavi. Al Regio di Torino la biglietter­ia vale il 17% del giro d’affari e gli sponsor il 2,5%. Così, avanti con questo adagio, la stecca nei conti è assicurata. La concession­e di licenze e marchi al Regio vale poco o nulla, 27 mila euro, neanche il valore di un ipotetico merchandis­ing di poster, tazze e magliette.

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