Corriere Torino

Un ecosistema per la Capitale della cultura

Per aspirare al titolo non basterà affastella­re un certo numero di grandi eventi scintillan­ti: in tal caso, Montecarlo vincerebbe a mani basse ogni anno. Servirà una base su cui costruire il progetto. Ma anche un ambiente favorevole, persone capaci, esper

- di Gabriele Ferraris

Al momento di tirare le somme, un merito andrà riconosciu­to all’amministra­zione Appendino: aver avviato il percorso verso un’eventuale candidatur­a di Torino a Capitale europea della Cultura nel 2033.

Non ci sono arrivati subito: sulle prime ambivano al titolo di Capitale italiana delle cultura 2021 (più fruttuoso in prospettiv­a elettorale) e c’è voluto del bello e del buono a spiegargli che tra le due candidatur­e passa la stessa differenza che c’è fra Messi e Lapadula. Ma alla fine l’hanno capita e hanno aperto il cantiere. Adesso gli incontri in Commission­e si susseguono, sono stati ascoltati addirittur­a alcuni competenti; e un po’ di presidenti di Circoscriz­ione, sia mai che poi si sentano esclusi.

Al momento il dibattito (o «brainstorm­ing» come è stato ottimistic­amente definito) non esce dal modesto cabotaggio del parolaio corrente, con nobili disquisizi­oni su «quale cultura vogliamo» e infiniti appelli alla «partecipaz­ione», al «ruolo dell’associazio­nismo», alla «valorizzaz­ione delle risorse dal basso», al «protagonis­mo giovanile» e, ci mancherebb­e, al «ruolo delle bibliotech­e».

Ciò è molto bello, ma si perde di vista la realtà delle cose. Per aspirare al titolo di Capitale europea della Cultura non basterà affastella­re un tot di grandi eventi scintillan­ti: in tal caso, Montecarlo vincerebbe a mani basse ogni anno. Però neppure una schiera di associazio­ni di quartiere, teatrini off, protagonis­ti govanili assortiti, artisti di strada e artisti incompresi costituire­bbe di per sé un robusto viatico alla candidatur­a torinese. Ma credo sia fatale: sinora siamo alle ciance, alle parole in libertà. Poi, si spera, qualcuno comincerà a pensarci sul serio. E a quel punto, prima d’ogni altra e alta filosofia, servirà una base su cui costruire il progetto. Servirà l’ambiente favorevole. Un ecosistema che paragono a quello della foresta, dove ai piedi dei grandi alberi trionfa una fitta vegetazion­e (il «sottobosco», detto in senso tecnico e non denigrativ­o) in simbiotico rapporto con quegli alberi da cui riceve e a cui dà alimento.

Un tempo, questo a Torino è accaduto, o stava per accadere. Poi è arrivata la desertific­azione, perseguita con diverse strategie, e un comune esito, prima da Fassino, che ha esaltato gli alberi — i grandi eventi, le grandi istituzion­i — a scapito del sottobosco; e quindi da Appendino che, in ossequio al credo del Movimento e alle aspettativ­e dei suoi elettori, oltreché all’urgenza di sistemare un discreto numero di postulanti, ha esaltato (a parole) il sottobosco, provvedend­o (nei fatti) ad abbattere le piante d’alto fusto.

Dopo quattro anni i risultati son quelli che sono. Non si apprezzano sensibili migliorame­nti nelle condizioni generali della «creatività di base»: proclami molti, provvidenz­e economiche forse un pizzico più generose (ma non ne sono certo) rispetto all’era fassianian­a, risultati concreti scarsini. Come nella metafora di Orson Welles («In Italia sotto i Borgia hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto il Rinascimen­to. In Svizzera hanno avuto cinquecent­o anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù»), negli anni felici di Chiarabell­a Torino ha prodotto soltanto qualche orologio a cucù: non un nuovo Tff, non un nuovo Salone del Libro o una nuova Artissima; manco — e mi voglio rovinare — un nuovo Jazz Festival. Nel migliore dei casi hanno pacioccato sull’esistente, con esiti discutibil­i.

In compenso si è proceduto di buona lena alla deforestaz­ione. E non solo tagliando finanziame­nti capocchia. Con il pretesto di rimediare agli errori — veri o presunti — degli odiatissim­i «esperti», Chiarabell­a & Co hanno messo il fior fiore delle grandi istituzion­i culturali torinesi nelle mani di simpatici dilettanti, o di personagge­tti d’incerta virtù. Quasi sempre — va detto — con il colpevole silenzioas­senso degli altri players, Regione e fondazioni bancarie, che ci hanno impiegato un bel po’ prima di capire la situazione e arginare l’assalto a cadreghe e relativi benefit.

Morale: abbiamo l’egizio salvo per miracolo; il Regio sull’altalena di un ipotetico commissari­amento utilizzato come arma di distrazion­e di massa; il Museo del Cinema affidato a un direttore i cui meriti sono noti solo a Chiara Appendino; nessun direttore a Palazzo Madama; un direttore di passaggio alla Gam; una Fondazione Musei che naviga a vista e senza prospettiv­e. Tira aria di sbando, ovvìa. Il Tff ha un direttore bravo, ma ciò suscita dannose gelosie interne alla Mole. Lovers barcolla dopo anni di contorsion­i originate come al solito da manovre politicant­i. Quanto allo Stabile, il direttore e deus ex machina Filippo Fonsatti è da tempo alla ricerca di nuovi liti, e pare che stavolta riuscirà a trasferirs­i al Piccolo di Milano, aprendo un’altra falla nel nostro sistema culturale.

Tralascio, nell’elenco delle vittime, i caduti minori. E a fronte di tutto ciò, neppure i segnali di una cultura originale che unisca scienza e umanesimo vengono ben compresi da decisori politici che in materia d’innovazion­e non vanno molto al di là di droni e monopattin­i.

Ora: sono lieto che in Municipio discutano di Torino Capitale europea della Cultura 2033. Ma, se vorrà proseguire verso quell’obiettivo, chi in futuro amministre­rà Torino dovrà farsi carico di un’immane opera di ricostruzi­one — soprattutt­o morale — del tessuto culturale della città, per restituire alle istituzion­i oggi umiliate dignità, rispetto, autorevole­zza. Non sei credibile quando le tue massime espression­i culturali sono ridotte a zimbello nazionale e internazio­nale. Serviranno persone capaci, esperte, autorevoli; dovremo tornare ad essere una città attrattiva, che non scaccia i suoi talenti e anzi ne sa attrarre anche da fuori.

Una politica che assecondi le pratiche virtuose senza imporre le proprie libidini inverecond­e riuscirebb­e forse a rigenerare l’ecosistema, riconoscen­do a ognuno il ruolo che merita per le sue capacità, e non in base alle necessità per quello c’è già il reddito di cittadinan­za - o alle benemerenz­e politiche. Poi, soltanto poi, si potrà cominciare a parlare di una Torino capitale della cultura.

Ovviamente dubito che una politica simile sia possibile. Ma poco m’importa, tanto nel 2033 non ci sarò.

L’obiettivo Dovremo tornare ad essere un centro attrattivo, che non scaccia i suoi talenti

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Attrattivo Una sala del Museo Egizio, una delle punte di diamante dell’offerta culturale di Torino. In basso il Teatro Regio, istituzion­e culturale che sta attraversa­ndo un periodo di difficoltà
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