Un ecosistema per la Capitale della cultura
Per aspirare al titolo non basterà affastellare un certo numero di grandi eventi scintillanti: in tal caso, Montecarlo vincerebbe a mani basse ogni anno. Servirà una base su cui costruire il progetto. Ma anche un ambiente favorevole, persone capaci, esper
Al momento di tirare le somme, un merito andrà riconosciuto all’amministrazione Appendino: aver avviato il percorso verso un’eventuale candidatura di Torino a Capitale europea della Cultura nel 2033.
Non ci sono arrivati subito: sulle prime ambivano al titolo di Capitale italiana delle cultura 2021 (più fruttuoso in prospettiva elettorale) e c’è voluto del bello e del buono a spiegargli che tra le due candidature passa la stessa differenza che c’è fra Messi e Lapadula. Ma alla fine l’hanno capita e hanno aperto il cantiere. Adesso gli incontri in Commissione si susseguono, sono stati ascoltati addirittura alcuni competenti; e un po’ di presidenti di Circoscrizione, sia mai che poi si sentano esclusi.
Al momento il dibattito (o «brainstorming» come è stato ottimisticamente definito) non esce dal modesto cabotaggio del parolaio corrente, con nobili disquisizioni su «quale cultura vogliamo» e infiniti appelli alla «partecipazione», al «ruolo dell’associazionismo», alla «valorizzazione delle risorse dal basso», al «protagonismo giovanile» e, ci mancherebbe, al «ruolo delle biblioteche».
Ciò è molto bello, ma si perde di vista la realtà delle cose. Per aspirare al titolo di Capitale europea della Cultura non basterà affastellare un tot di grandi eventi scintillanti: in tal caso, Montecarlo vincerebbe a mani basse ogni anno. Però neppure una schiera di associazioni di quartiere, teatrini off, protagonisti govanili assortiti, artisti di strada e artisti incompresi costituirebbe di per sé un robusto viatico alla candidatura torinese. Ma credo sia fatale: sinora siamo alle ciance, alle parole in libertà. Poi, si spera, qualcuno comincerà a pensarci sul serio. E a quel punto, prima d’ogni altra e alta filosofia, servirà una base su cui costruire il progetto. Servirà l’ambiente favorevole. Un ecosistema che paragono a quello della foresta, dove ai piedi dei grandi alberi trionfa una fitta vegetazione (il «sottobosco», detto in senso tecnico e non denigrativo) in simbiotico rapporto con quegli alberi da cui riceve e a cui dà alimento.
Un tempo, questo a Torino è accaduto, o stava per accadere. Poi è arrivata la desertificazione, perseguita con diverse strategie, e un comune esito, prima da Fassino, che ha esaltato gli alberi — i grandi eventi, le grandi istituzioni — a scapito del sottobosco; e quindi da Appendino che, in ossequio al credo del Movimento e alle aspettative dei suoi elettori, oltreché all’urgenza di sistemare un discreto numero di postulanti, ha esaltato (a parole) il sottobosco, provvedendo (nei fatti) ad abbattere le piante d’alto fusto.
Dopo quattro anni i risultati son quelli che sono. Non si apprezzano sensibili miglioramenti nelle condizioni generali della «creatività di base»: proclami molti, provvidenze economiche forse un pizzico più generose (ma non ne sono certo) rispetto all’era fassianiana, risultati concreti scarsini. Come nella metafora di Orson Welles («In Italia sotto i Borgia hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù»), negli anni felici di Chiarabella Torino ha prodotto soltanto qualche orologio a cucù: non un nuovo Tff, non un nuovo Salone del Libro o una nuova Artissima; manco — e mi voglio rovinare — un nuovo Jazz Festival. Nel migliore dei casi hanno pacioccato sull’esistente, con esiti discutibili.
In compenso si è proceduto di buona lena alla deforestazione. E non solo tagliando finanziamenti capocchia. Con il pretesto di rimediare agli errori — veri o presunti — degli odiatissimi «esperti», Chiarabella & Co hanno messo il fior fiore delle grandi istituzioni culturali torinesi nelle mani di simpatici dilettanti, o di personaggetti d’incerta virtù. Quasi sempre — va detto — con il colpevole silenzioassenso degli altri players, Regione e fondazioni bancarie, che ci hanno impiegato un bel po’ prima di capire la situazione e arginare l’assalto a cadreghe e relativi benefit.
Morale: abbiamo l’egizio salvo per miracolo; il Regio sull’altalena di un ipotetico commissariamento utilizzato come arma di distrazione di massa; il Museo del Cinema affidato a un direttore i cui meriti sono noti solo a Chiara Appendino; nessun direttore a Palazzo Madama; un direttore di passaggio alla Gam; una Fondazione Musei che naviga a vista e senza prospettive. Tira aria di sbando, ovvìa. Il Tff ha un direttore bravo, ma ciò suscita dannose gelosie interne alla Mole. Lovers barcolla dopo anni di contorsioni originate come al solito da manovre politicanti. Quanto allo Stabile, il direttore e deus ex machina Filippo Fonsatti è da tempo alla ricerca di nuovi liti, e pare che stavolta riuscirà a trasferirsi al Piccolo di Milano, aprendo un’altra falla nel nostro sistema culturale.
Tralascio, nell’elenco delle vittime, i caduti minori. E a fronte di tutto ciò, neppure i segnali di una cultura originale che unisca scienza e umanesimo vengono ben compresi da decisori politici che in materia d’innovazione non vanno molto al di là di droni e monopattini.
Ora: sono lieto che in Municipio discutano di Torino Capitale europea della Cultura 2033. Ma, se vorrà proseguire verso quell’obiettivo, chi in futuro amministrerà Torino dovrà farsi carico di un’immane opera di ricostruzione — soprattutto morale — del tessuto culturale della città, per restituire alle istituzioni oggi umiliate dignità, rispetto, autorevolezza. Non sei credibile quando le tue massime espressioni culturali sono ridotte a zimbello nazionale e internazionale. Serviranno persone capaci, esperte, autorevoli; dovremo tornare ad essere una città attrattiva, che non scaccia i suoi talenti e anzi ne sa attrarre anche da fuori.
Una politica che assecondi le pratiche virtuose senza imporre le proprie libidini invereconde riuscirebbe forse a rigenerare l’ecosistema, riconoscendo a ognuno il ruolo che merita per le sue capacità, e non in base alle necessità per quello c’è già il reddito di cittadinanza - o alle benemerenze politiche. Poi, soltanto poi, si potrà cominciare a parlare di una Torino capitale della cultura.
Ovviamente dubito che una politica simile sia possibile. Ma poco m’importa, tanto nel 2033 non ci sarò.
L’obiettivo Dovremo tornare ad essere un centro attrattivo, che non scaccia i suoi talenti