Corriere Torino

«Quelle mie scarpe della Superga che uso ancora»

- G. Mec.

Nel 1976 Adriano Panatta era ovunque. In campo vinceva, nell’ordine Internazio­nali d’italia, Roland Garros e Coppa Davis. Fuori dal campo le aziende lo volevano come testimonia­l. Anche Alitalia lo ha fatto salire a bordo, insieme ai suoi compagni di Davis. Alto, capello lungo, elegante senza doversi sforzare, fortissimo sulla terra rossa. Il tennista romano, settant’anni appena compiuti, quando ne aveva ventisei era un sex symbol, perfetto per far crescere i brand, per fidelizzar­e i clienti.

Adriano Panatta, i completini che indossava quando giocava a tennis oggi sono conservati nelle teche dei musei, hanno fatto la leggenda dello sport e della moda. Lei partecipav­a alla creazione del suo abbigliame­nto?

«No, facevo fare tutto a loro. Sergio Rolando conosceva i miei gusti, sapeva che amavo la tinta unita: pantaloni bianchi e magliette sempre uguali: bianche, rosse o verdi. I tennisti sono un po’ scaramanti­ci, amano vestirsi sempre allo stesso modo, avere gli stessi rituali. Per il resto lasciavo carta bianca».

È vero che negli anni Settanta è stato al centro di una lunga trattativa tra le aziende?

«Sì. A inizio carriera vestivo Tacchini, come quasi tutti gli italiani. Un giorno venne da me Enrico Frachey, mi parlò di un’azienda di intimo a Biella che voleva entrare nel mondo dello sport, che voleva portare i colori del tennis. Ti va di rappresent­arci? Mi chiese. Risposi d’istinto, la trovai un’idea geniale. Trenta milioni di ingaggio. Erano bei soldi, niente in confronto agli accordi di oggi».

Un’altra pubblicità del 1976 si vede lei in primo piano mentre colpisce un rovescio. “Le ali ai piedi in Coppa Davis.

Panatta vince ancora”. Firmato Superga.

«Indosso quelle scarpe ancora oggi. Due anni fa hanno deciso di rimetterle in commercio così come allora, senza modificare niente e sono andate a ruba, senza bisogno di nessuna invenzione o innovazion­e, ogni tanto le cose vanno bene così come sono. A volte mi chiedo come facevo a giocarci a tennis, però non riuscivo a farne a meno. Per colpa di quelle scarpe ho rischiato di arrivare in ritardo alla finale di Parigi».

Cioè?

«È stata colpa di Paolo Bertolucci».

Racconti.

«Anche Paolo giocava al Roland Garros quell’anno. Quando è stato eliminato dal torneo ha fatto le valigie ed è tornato a casa. Per sbaglio si è messo in borsa le mie scarpe, che sembravano identiche alle sue. Io mi sono ritrovato alla vigilia della finale più importante della mia carriera a piedi scalzi. Non volevo giocare con nient’altro, ma non sapevo cosa fare. A un certo punto, disperato, chiamai un negozio di Roma che le vendeva, me le feci portare in aeroporto a Fiumicino. La mattina dopo, domenica, giorno della finale, un pilota che conoscevo le ha imbarcate in aereo. Destinazio­ne Parigi Orly, dove una macchina le aspettava. A quei tempi la Francia era lontanissi­ma, ogni spostament­o era complicato. Le mie scarpe sono arrivate nel club mezz’ora prima dell’inizio dell’incontro. Confesso che per un po’ ho tremato al pensiero che quel volo arrivasse in ritardo».

Per la cronaca: il 13 giugno 1976 Adriano Panatta, con le sue scarpe ai piedi, ha vinto in finale contro Solomon il Roland Garros. Trenta milioni di lire ben spesi.

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