Un anno tra i torinesi che giocano alle slot
Maria è un’operaia in pensione e trascorre gran parte della sua giornata in casa. Per farla uscire, il figlio la porta alla sala slot. Poi c’è Pina che passa il suo tempo ad accudire il marito malato e, non appena arriva la badante, va nella sala giochi per staccare un po’. Infine, c’è Piero che di mestiere fa il giardiniere e che gioca solo nei giorni di pioggia quando non può lavorare. Inaccessibili agli sguardi esterni grazie ai loro vetri oscurati, le sale slot conservano un’aura di mistero e trasgressione. Ma cosa si nasconde dietro a quelle vetrine e alla scritta «vietato ai minori»?
Manuela Vinai è un’antropologa, ha vissuto 12 mesi nelle sale giochi del Piemonte. Racconta luci, suoni e giocatori che non vogliono davvero vincere...
Maria è un’operaia in pensione e trascorre gran parte della sua giornata in casa. Per farla uscire, il figlio la porta alla sala slot. Poi c’è Pina che passa il suo tempo ad accudire il marito malato e, non appena arriva la badante, va nella sala giochi per staccare un po’. Infine, c’è Piero che di mestiere fa il giardiniere e che gioca solo nei giorni di pioggia quando non può lavorare. Inaccessibili agli sguardi esterni grazie ai loro vetri oscurati, le sale slot conservano un’aura di mistero e trasgressione. Ma cosa si nasconde dietro a quelle vetrine e alla scritta «vietato ai minori di diciotto anni»? È la domanda che si è posta l’antropologa torinese Manuela Vinai che, per quasi un anno, ha frequentato le sale da gioco piemontesi per studiarle. È la prima indagine di questo genere in Italia e viene raccontata nel libro «I giocatori. Etnografia nelle sale slot della provincia italiana», appena pubblicato da Meltemi. Il libro nasce da una ricerca commissionata dal servizio per le dipendenze patologiche delle Asl di Vercelli e Biella.
Le sale slot sono controllate dal Monopolio di Stato, ma continuano a essere percepite come luoghi al di fuori della legalità. Varcata la soglia si respira un’aria sospesa, come se il tempo in questi posti trascorresse un po’ più lento. La moquette sul pavimento, la luce artificiale, il profumo proveniente dai nebulizzatori: tutto è ovattato. Una specie di pace da non turbare. Gli unici suoni sono quelli delle macchinette, si ascoltano i jingle elettronici e il suono delle monete. Ognuno è aggrappato alla «propria» macchina. Immobili, i giocatori trascorrono il tempo schiacciando ripetutamente un bottone. Il colpo d’occhio restituisce l’immagine di corpi fermi davanti a uno schermo. Ogni apparecchio ha il suo sgabello, che deve essere comodo, perché il cliente possa trascorrere diverse ore giocando. Il giocatore deve sentirsi, in qualche modo, protetto. Ma altri oggetti caratterizzano l’ambiente: il posacenere, il cambiamonete, i segnaposti e i bicchieri che consentono di raccogliere le monete. Le slot machine hanno un effetto ipnotico, le luci e i suoni che emettono sembrano rapire le persone davanti ai loro schermi. I locali stessi sono progettati per distogliere l’attenzione dal mondo esterno. L’ambiente è oscurato e l’effetto è quello del luna park, con tanti luccichii e i colori sgargianti, che rendono gli apparecchi la vera attrazione della sala.
Tutto sembra svolgersi senza particolari emozioni, non si sentono grida per la vincita né segni di sconforto per la perdita di denaro. C’è poca socialità nella sala, le persone non parlano tra di loro né si scambiano gesti e sguardi. Il vero rapporto è quello tra la persona e la macchina. Per il giocatore la macchinetta diventa quasi una persona, racconta un intervistato: «Sono io che dico alla macchina: “dammi da vincere”. Tu le dai da mangiare e lei ti parla, per questo ti dico che è una persona, perché ti parla. Ti parla come? Ogni tanto ti dà qualche 2 euro, ogni tanto non ti dà niente, ogni tanto ti dà il bonus… ci parli».
Sullo schermo i simboli si susseguono velocemente, se l’esito della rotazione è una serie di oggetti uguali si vince. Non occorrono particolari abilità. È difficile stabilire una figura tipo di giocatore: c’è l’anziana che si gioca una parte della pensione, c’è l’impiegato che arriva nella pausa pranzo o la signora distinta che sembra passare di lì per caso. Nelle sale si incontrano diverse fasce sociali, si può trovare chi arriva a stento a fine mese e che ricompare non appena gli è stato riaccreditato lo stipendio o chi non ha problemi economici. Le sale gioco sono malviste, difficilmente c’è chi confessa di frequentarle e anche per chi lavora in questi luoghi non è facile gestire il peso del giudizio di amici e famigliari.
Secondo un’indagine nel 2018 ha giocato d’azzardo il 32,7% dei residenti in Piemonte tra 18 e 84 anni. Il settore del gioco in Italia coinvolge 5.000 aziende, 87.000 esercenti e oltre 150.000 occupati. Una questione preoccupante è la patologia del gioco compulsivo, che rientra nelle dipendenze. C’è chi si indebita per giocare, per questo può capitare che siano gli stessi gestori a provare a distrarre dal gioco chi spende troppo. Ma non sono tutti giocatori patologici, sottolinea Manuela Vinai: «Come in un bar non trovi tutti alcolizzati, così nelle sale non sono tutti malati di gioco. La chiave per gli operatori delle Asl è quella di collaborare con i gestori». Si potrebbe scoprire che il giocatore non è davvero interessato a vincere, quel che cerca è la distrazione dal quotidiano.
Sono controllate dal Monopolio di Stato, sono percepite come fuori della legalità