Rosi: «Dai confini racconto storie»
Il regista presenterà il suo film domani al Massimo alle 18.30
Il lungo viaggio di Gianfranco Rosi continua; prosegue una rotta iniziata nel 2007 con «Below Sea Level», dedicato agli homeless del deserto della California. Si sposta in Messico con «El Sicario», confessione di un killer dei Narcos, per poi sbarcare in Italia; prima a Roma con «Sacro Gra», Leone d’oro a Venezia, poi a Lamped u s a , con quel «Fuocoammare» trionfatore a Berlino. Con «Notturno», già in sala e che il regista presenterà domani al Massimo alle 18.30, quella linea che porta a oriente fa tappa nei confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Gianfranco Rosi ne parla, con passione e trasporto. «Questo è un film-documentario –afferma- perché al “vero” abbina le regole del cinema». Poi continua: «Notturno trasforma le mappe in quella che definisco “psico-geografia”, luoghi che interferiscono profondamente nelle persone che nascono per caso da una parte o dall’altra della barricata. Persino le didascalie che spiegano dove ci si trova sono al limite del superfluo perché i confini che racconto sono soprattutto margini tra memorie e si riverberano su vite reali e non precostituite».
I confini di Notturno non sono solo linee tra il «dove» ma anche tra il «quando»; la dimensione dell’attesa, per esempio, è pervasiva e fa rivivere un clima da Deserto dei Tartari. «C’è anche quella del tempo –aggiunge- e nelle storie che racconto c’è sempre un “prima”, spesso drammatico e segnato da morte e sangue come le stragi dell’isis raccontate dai disegni dei bambini - e un “dopo” dai contorni imprecisati, in attesa di un nemico che forse arriverà ma non si sa come né quando». La medesima storia, alla cui ricostruzione è demandata una compagnia teatrale di un manicomio di Bagdad, di cui Rosi racconta: «Quel luogo era la mia ossessione ma non sapevo come rappresentarlo. Un giorno vengo a sapere di una recita basata sulla storia del Medio Oriente; era l’ennesimo esempio di come nella realtà ci sia già tutto ciò di cui il mio cinema ha bisogno».
Poi si esprime sulla sequenza iniziale «in cui – confessa risiede il senso del film. Sta in quell’incomprensibile corsa di soldati, anonimi e senza bandiera in cui mi sono imbattuto per caso e che transitando davanti alla macchina da presa urlavano il loro grido di guerra. A chi mi accusa di scrivere le parti dei miei personaggi rispondo che è ovvio che le persone davanti a una macchina da presa perdano parte della loro ingenuità. Ma i protagonisti dei miei film sono vivi, profondamente reali, e ti comunicano con i loro cuori molta più sofferenza e disagio di una sparatoria al fronte, dove già ti aspetti morti e feriti».
Un riverbero, quello delle vite «di confine», di cui il film si nutre e che ritorna nella scelta dei luoghi e dei rumori. «È esattamente questo il punto – precisa ancora il regista -; io racconto le intersezioni tra vita e morte, quotidianità ed eccezione; come quando i rumori dei mitra si confondono con il gorgoglio del narghilè o con il verso delle anatre. È un costante accompagnamento sonoro che ti capita di sentire in quei luoghi e quando chiedi cosa sta succedendo fanno spallucce e ti rispondono “chissà, magari un combattimento, una lotta tra bande o forse un matrimonio”».
In occasione della tappa a Torino dichiara che «il rapporto con la città è poco praticato ma molto affettuoso. Si basa fondamentalmente sui racconti di una cara amica torinese scherza - e sulla stima che mi lega ad Alberto Barbera. Di certo è una città in cui mi piace tornare; qui ho presentato molti dei miei film e mi trovo sempre a mio agio». Infine chiude con un invito; «Torinesi, non abbiate paura di tornare al cinema; normalità e socialità – assicura - passano anche da questo luogo». D’altra parte cosa, meglio di una sala, rappresenta quella crepa tra luce e buio, fantasia e realtà, storia e visione poetica che nutrono, da sempre, il suo cinema
Grande affetto per Torino E ai torinesi dico: non abbiate paura di tornare al cinema