A rischio 3,4 miliardi di export Si teme per il food
Solo i mezzi di trasporto valgono oltre mezzo miliardo. La filiera alimentare però è meno articolata: «Se interrompi il flusso, si perdono i clienti»
La curva in ascesa dei contagi spinge l’asse dei governatori del Nordovest a valutare controlli più rigidi ai confini se non la loro chiusura, un protezione sanitaria che rischia però di trasformarsi in un protezionismo al contrario. Cioè in grado di far bene solo ai produttori esteri. Le aziende piemontesi già tremano alla sola idea. La Francia è con la Germania il primo mercato di sbocco del nostro export: vale circa il 13%, 3,4 miliardi di euro. Oltralpe, per lo più su gomma, vanno i due comparti che più caratterizzano il Piemonte, vale a dire agroalimentare e automotive. Il primo nel 2019 ha venduto a Parigi 445 milioni di euro di prodotti, saliti addirittura a 446 nel primo semestre 2020; non parliamo del risultato torinese, che ha visto l’export di food, bevande e tabacco decollare del 21,3% a 107 milioni da gennaio a giugno.
La vera parte del leone però la fanno i mezzi di trasporto (581 milioni nel 2019 contro i 437 del 2020, -24,8%), seguiti da tutta la meccanica: macchinari (573 milioni nel 2019 contro i 432 del 2020, -24,5%); autoveicoli (494 milioni nel 2019 contro i 361 del 2020, -26,9%) e prodotti delle altre attività manifatturiere (387 milioni del 2019 contro i 150 del 2020, -61%). Segni meno per lo più imputabili al fermo dell’automotive, comparto pachidermico tanto nelle scelte quanto nelle ripartenze.
Diverso è il discorso per il food, per cui si profilerebbe un nuovo pericolo. «Stiamo parlando di uno dei pochi settori che va bene — si allarma Luca Pignatelli, capo centro studi di Confindustria Piemonte —. Mentre con la meccanica hai una catena di fornitori lunga e articolata, dunque difficile da modificare, nell’alimentare, settore tra i più consumer oriented, se interrompi il flusso il tuo acquirente come una catena di supermercati ci mette pochissimo a rivolgersi a qualcun altro: è un autogol clamoroso». Tanto più che vini, dolci, nocciole e prodotti da forno da soli valgono il 10% dell’intero export verso il Paese del Tricolore. «Non si perde solo il consumatore, ma il fornitore», chiosa Pignatelli.
Ne sa qualcosa Raffaele Drocco, ad della Sancassiano di Roddi (Alba), 50 milioni di ricavi, 150 addetti, produttrice di impastatrici e sistemi di dosaggio in quel Cuneese che con la Francia ha un legame d’elezione, oltre che economico. «È uno dei nostri primi mercati, vale tra il 5 e il 10% — conferma il ceo —. Ora abbiamo 4-5 commesse da soddisfare, che variano dai 500 mila euro al milione e mezzo. Chiaramente sbarrare i confini, o un inasprimento dei controlli, avrà l’effetto collo di bottiglia. E io o chiudo l’azienda o vado in cassa integrazione spinta». Carta e penna alla mano, Drocco spiega perché: «Con la quarantena imposta in Inghilterra abbiamo cessato gli ordini, 40% in meno di fatturato. Perché noi dobbiamo mandare commerciali e tecnici in loco a montare — aggiunge —. Io ho imposto ai miei i tamponi obbligatori, li pago io, ma tra isolamento e attesa dei risultati, mediamente tre giorni, spendo 900 euro a dipendente, faccia lei».
Preoccupato anche Andrea Bertolino, socio amministratore della Mokabar, da 60 anni sul mercato, 1,5 milioni di ricavi, di cui il 12% proprio dalla Francia. Al lavoro con due distributori, a Lione e Nizza, grazie all’estate ha visto risalire il fatturato, ma oggi vive alla giornata: «In tempi normali preparavamo 1.500 chili di caffè al mese che i nostri clienti vengono a prendere direttamente a Torino, con il lockdown siamo arrivati a 150 chili, oggi siamo tornati ai numeri pre-covid, ma se chiudono i confini dovremo appoggiarci a un’azienda logistica torinese e i margini andranno ulteriormente ad assottigliarsi».