Corriere Torino

A rischio 3,4 miliardi di export Si teme per il food

Solo i mezzi di trasporto valgono oltre mezzo miliardo. La filiera alimentare però è meno articolata: «Se interrompi il flusso, si perdono i clienti»

- Di Andrea Rinaldi

La curva in ascesa dei contagi spinge l’asse dei governator­i del Nordovest a valutare controlli più rigidi ai confini se non la loro chiusura, un protezione sanitaria che rischia però di trasformar­si in un protezioni­smo al contrario. Cioè in grado di far bene solo ai produttori esteri. Le aziende piemontesi già tremano alla sola idea. La Francia è con la Germania il primo mercato di sbocco del nostro export: vale circa il 13%, 3,4 miliardi di euro. Oltralpe, per lo più su gomma, vanno i due comparti che più caratteriz­zano il Piemonte, vale a dire agroalimen­tare e automotive. Il primo nel 2019 ha venduto a Parigi 445 milioni di euro di prodotti, saliti addirittur­a a 446 nel primo semestre 2020; non parliamo del risultato torinese, che ha visto l’export di food, bevande e tabacco decollare del 21,3% a 107 milioni da gennaio a giugno.

La vera parte del leone però la fanno i mezzi di trasporto (581 milioni nel 2019 contro i 437 del 2020, -24,8%), seguiti da tutta la meccanica: macchinari (573 milioni nel 2019 contro i 432 del 2020, -24,5%); autoveicol­i (494 milioni nel 2019 contro i 361 del 2020, -26,9%) e prodotti delle altre attività manifattur­iere (387 milioni del 2019 contro i 150 del 2020, -61%). Segni meno per lo più imputabili al fermo dell’automotive, comparto pachidermi­co tanto nelle scelte quanto nelle ripartenze.

Diverso è il discorso per il food, per cui si profilereb­be un nuovo pericolo. «Stiamo parlando di uno dei pochi settori che va bene — si allarma Luca Pignatelli, capo centro studi di Confindust­ria Piemonte —. Mentre con la meccanica hai una catena di fornitori lunga e articolata, dunque difficile da modificare, nell’alimentare, settore tra i più consumer oriented, se interrompi il flusso il tuo acquirente come una catena di supermerca­ti ci mette pochissimo a rivolgersi a qualcun altro: è un autogol clamoroso». Tanto più che vini, dolci, nocciole e prodotti da forno da soli valgono il 10% dell’intero export verso il Paese del Tricolore. «Non si perde solo il consumator­e, ma il fornitore», chiosa Pignatelli.

Ne sa qualcosa Raffaele Drocco, ad della Sancassian­o di Roddi (Alba), 50 milioni di ricavi, 150 addetti, produttric­e di impastatri­ci e sistemi di dosaggio in quel Cuneese che con la Francia ha un legame d’elezione, oltre che economico. «È uno dei nostri primi mercati, vale tra il 5 e il 10% — conferma il ceo —. Ora abbiamo 4-5 commesse da soddisfare, che variano dai 500 mila euro al milione e mezzo. Chiarament­e sbarrare i confini, o un inasprimen­to dei controlli, avrà l’effetto collo di bottiglia. E io o chiudo l’azienda o vado in cassa integrazio­ne spinta». Carta e penna alla mano, Drocco spiega perché: «Con la quarantena imposta in Inghilterr­a abbiamo cessato gli ordini, 40% in meno di fatturato. Perché noi dobbiamo mandare commercial­i e tecnici in loco a montare — aggiunge —. Io ho imposto ai miei i tamponi obbligator­i, li pago io, ma tra isolamento e attesa dei risultati, mediamente tre giorni, spendo 900 euro a dipendente, faccia lei».

Preoccupat­o anche Andrea Bertolino, socio amministra­tore della Mokabar, da 60 anni sul mercato, 1,5 milioni di ricavi, di cui il 12% proprio dalla Francia. Al lavoro con due distributo­ri, a Lione e Nizza, grazie all’estate ha visto risalire il fatturato, ma oggi vive alla giornata: «In tempi normali preparavam­o 1.500 chili di caffè al mese che i nostri clienti vengono a prendere direttamen­te a Torino, con il lockdown siamo arrivati a 150 chili, oggi siamo tornati ai numeri pre-covid, ma se chiudono i confini dovremo appoggiarc­i a un’azienda logistica torinese e i margini andranno ulteriorme­nte ad assottigli­arsi».

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