Condanna a trent’anni per l’omicidio di Pinasca «Atto lucido e crudele»
Il settantenne Barotto sparò in bocca al vicino, per un parcheggio. Il pm aveva chiesto l’ergastolo
Fu un omicidio eseguito con «crudeltà, freddezza, lucidità» e volto «all’annientamento della vittima», dice a un certo punto della sua requisitoria il pubblico ministero Rossella Salvati, chiedendo l’ergastolo con sei mesi di isolamento diurno per Stefano Barotto, 70 anni, accusato di aver ucciso con due colpi di fucile Assuntino Mirai, 66. Un delitto avvenuto il 18 ottobre 2019 nei boschi di Pinasca, una decina di chilometri da Pinerolo, e nato per una discussione dovuta a un parcheggio, nella quale l’assassino neppure era stato coinvolto in prima persona, ma solo perché accompagnava un amico. Ieri pomeriggio, la corte d’assise l’ha condannato a trent’anni di reclusione, accogliendo la ricostruzione dell’accusa — e dei carabinieri di Pinerolo — ma escludendo l’aggravante di aver agito per futili motivi. Escludendo però le attenuanti generiche. La corte — presidente Alessandra Salvadori, giudice a latere Lucilla Raffaelli — ha stabilito anche complessivi 800.000 euro di provvisionale a titolo di risarcimento per i parenti della vittima (moglie, figlie e nipote), costituiti parte civile con gli avvocati Cristian Scaramozzino e Cristina Lavezzaro.
Non fu solo un terribile delitto, ma una storia raggelante che il pm ricostruisce in poco meno di un’ora, in modo semplice e lineare, senza scomodare iperboli, davanti a una realtà già sfacciatamente crudele, come fosse un film di Tarantino: «Il primo colpo di fucile prende di striscio la gamba destra, bucando il pantalone, il secondo quella sinistra, fratturando il femore, e il terzo, con la vittima ormai a terra, viene sparato dentro il cavo orale». La consulenza medico legale lascia minime possibilità ad ogni altra versione: l’ustione provocata dalle canne sovrapposte del fucile — oggetto di furto e illegalmente detenuto — e la completa assenza di fratture ai denti. Morale del pm: «È una condotta assolutamente volontaria, di chi vuole annientare l’altro». Tutto ciò davanti agli occhi della moglie della vittima, che fino all’ultimo aveva tentato di ricondurre alla ragione l’aggressore, fino alla chiamata del 112, che registrò i colpi fatali. Rimorso o pentimento? Zero, sottolinea la Procura: «Dopo l’omicidio Barotto non è sconvolto, ma se ne va a piedi e prende un passaggio in auto per andare in trattoria, a bere un bicchiere di vino».
La rabbia, chissà quanto sedimentata su bisticci di anni precedenti, si era innescata un’oretta prima, per un parcheggio: una discussione dal finestrino dell’auto, diventata lite e scazzottata. «Ma finita con stretta di mano», riferiranno i testimoni. Macché. Barotto — difeso dall’avvocato Paolo Galvagno — torna da Mirai, tra i boschi, dove l’uomo era andato a cercare castagne, con moglie e nipotino di 12 anni. Ripresentandosi però con il fucile, deposto solo per un attimo, grazie all’intervento di un testimone, poi minacciato e costretto alla fuga. L’epilogo lo tracciano le parti civili: «Un’esecuzione brutale, dalle modalità mafiose, priva di qualsiasi pietà umana».