Se guerra e tsunami diventano arte
A Venaria le foto di Pellegrin, uno dei protagonisti del reportage contemporaneo
Conflitti armati, guerre e rivoluzioni, migranti ed esuli, Isis e Boko Haram, l’iraq e Gaza, lo tsunami e Guantanamo. E poi la natura e l’ambiente, spesso vittime di una guerra ugualmente feroce: la bellezza ferita dell’antartide e la sua fragilità nascosta, i boschi australiani in fiamme nel 2020... «Paolo Pellegrin. Un’antologia» (fino al 31 gennaio nelle Sale delle Arti di Venaria Reale, a cura di Annalisa D’angelo da un progetto di Germano Celant, il grande critico scomparso lo scorso aprile) racconta la lunga parabola professionale di uno dei protagonisti del reportage contemporaneo. È una mostra coraggiosa, che poco indulge al carattere «glamour» di alcune retrospettive di fotografia anche recenti, oggi tanto alla moda e di grande successo. Non è una mostra consolatoria, nonostante la qualità (a tratti davvero straordinaria) delle immagini e la loro capacità di sollecitare i più diversi sentimenti e interrogativi.
Conflitti armati, guerre e rivoluzioni, migranti ed esuli, Isis e Boko Haram, l’iraq e Gaza, lo tsunami e Guantanamo. E poi la natura e l’ambiente, spesso vittime di una guerra ugualmente feroce: la bellezza ferita dell’antartide e la sua fragilità nascosta, i boschi australiani in fiamme nel 2020... «Paolo Pellegrin. Un’antologia» (fino al 31 gennaio nelle Sale delle Arti di Venaria Reale, a cura di Annalisa D’angelo da un progetto di Germano Celant, il grande critico scomparso lo scorso aprile) racconta la lunga parabola professionale di uno dei protagonisti del reportage contemporaneo.
È una mostra coraggiosa, che poco indulge al carattere «glamour» di alcune retrospettive di fotografia anche recenti, oggi tanto alla moda e di grande successo. Non è una mostra consolatoria, nonostante la qualità (a tratti davvero straordinaria) delle immagini e la loro capacità di sollecitare i più diversi sentimenti e interrogativi. Nelle immagini di Paolo Pellegrin il protagonista non è la forma, ma piuttosto «il racconto delle persone che abitano il mondo, e la memoria del mondo», dice.
Pellegrin ha 56 anni, è nato a Roma e, dopo gli studi da arselezionate chitetto (non conclusi), dal 2001 è legato alla celebre agenzia Magnum Photo (che è anche partner della mostra). Sono memorabili, tra gli altri, i servizi realizzati per il «New York Times Magazine» spesso in collaborazione con il corrispondente di guerra Scott Anderson, secondo un’idea molto americana di giornalismo che si fa attraverso immagine e scrittura, inscindibilmente legati.
«La mostra nasce dall’incontro con Germano Celant, che mi ha invitato a guardare in modo diverso all’archivio dei miei scatti, a rileggerli e a osservarli con nuovi occhi», spiega Paolo Pellegrin. La retrospettiva, dopo le tappe di Roma e Amburgo, è via via cresciuta, e ha assunto caratteri nuovi anche nel corso del lockdown: «Per trent’anni sono stato molto prolifico, ogni progetto mi ha condotto a quello successivo. Finché ho sentito la necessità di fare un punto. Non il punto definitivo», chiarisce. Non è l’antologica «finale», quindi, ma una (possibile) retrospettiva su un autore nel pieno della sua crescita professionale che, con più di 200 immagini e 4 proiezioni video, invita a riflettere su alcuni momenti cruciali della nostra storia e del nostro presente.
La mostra si apre con le immagini della battaglia di Mosul, con i Peshmerga curdi e l’esercito iracheno che combattono per riprendersi la città, «nella battaglia urbana più cruenta dopo Stalingrado», commenta Pellegrin, che aggiunge: «Ho fotografato vari conflitti, ma questa sorta di Guernica è per me anche un simbolo o una metafora del conflitto, di ogni conflitto». Accanto, un «trittico» di militanti dell’isis, prigionieri, ritratti in scala uno a uno. Segue un altro trittico con le tracce, quasi astratte nella loro essenzialità, dei bombardamenti su Gaza del 2014. E poi l’iraq sprofondato nel caos dopo l’invasione statunitense del 2003, il muro di separazione a Gerusalemme Est, le colonie israeliane in Cisgiordania: vedute aeree, fuoco e nuvole di fumo, volti attoniti di uomini e donne in fuga. «Come rappresentare fatti tanto complessi? Le immagini sono anche l’esito di un processo di scrematura e, insieme, di uno studio su me stesso e sul mio lavoro», confida. Al centro della sala, un tavolo con scatti dell’iraq, emersi dall’archivio e mai prima editati. Nuova sala: una serie di volti e corpi, con le loro ferite. Sono i sopravvissuti all’operazione israeliana Piombo Fuso del 2008-09 a Gaza, raccontati da Pellegrin attraverso immagini e testi da lui composti.
Sono fotografie intense, eloquenti, definitive. Perché il bianco e nero? «Lavoro nel solco di una tradizione di fotografi che cerco di onorare», riflette Pellegrin. «Ma credo anche che il bianco e nero permetta di fare una cosa che mi interessa particolarmente, cioè togliere una parte del reale perché la fotografia possa diventare metafora. Solo attraverso la sottrazione ci si può esprimere in termini simbolici e universali. Almeno per me».
Il percorso si conclude con una parete di disegni, taccuini, appunti e maquette: è lo studio (o l’officina) del fotografo, un «invito a entrare in un mondo che sta un po’ scomparendo ma che, nonostante i computer e il digitale, rimane artigianale». Nelle grandi tragedie del nostro tempo, nella sofferenza dei singoli e dei popoli, Pellegrin insiste nel far emergere quasi all’improvviso, nel suggestivo allestimento di Sergio Bianchi, una quotidianità ordinaria ma speciale, fatta anche di «bellezza e dignità». Come nei ritratti della giovane coppia ad Haiti, Paese pur tormentato da innumerevoli tragedie. E nel volto dolce di Erna, seppiato ed esaltato dal lusso di una cornice d’oro. È una giovane donna rom, ha origini bosniache e vive a Roma. Ed è bellissima.