Berengo Gardin e la visione sociale di Olivetti
Allora non ci hanno raccontato una storia. La favola del buon imprenditore che voleva fare della sua fabbrica un luogo efficiente di grande sviluppo e idee per il futuro, ma anche a misura d’uomo, dove la qualità della vita di ogni operaio e impiegato fosse il fattore centrale che lo portava a dare il meglio di sé. L’imprenditore che aveva reso il lavoro non un mostro ma un’opportunità esistenziale: era tutto vero. Nessuna bugia, come testimonia la mostra a cura di Margherita Naim e Giangavino Pazzola Gianni Berengo Gardin e la Olivetti, inaugurata ieri nella
Project Room di Camera.
Novantenne, Berengo Gardin è stato uno dei più grandi fotografi italiani erede di quei reporter impegnati che arrivava dall’america di Roosvelt, che diede il compito a diversi fotografi, tramite la Farm Security Administration, di documentare gli effetti del New Deal nelle zone rurali del Paese. Ecco che le immagini di Ivrea e della Olivetti, della gente e del territorio (ma anche delle altre fabbriche del gruppo in luoghi diversi) occupano una parte rilevante della sua narrazione.
«La grande forza del suo lavoro — commenta Giangavino Pazzola — è che rileva non tanto il valore del prodotto, ma la visione socio politica. In queste immagini inedite l’individuo è sempre presente. È evidente l’intenzione di tradurre la volontà del committente di creare un contesto favorevole alla qualità di vita. Come per tutti, anche per chi in quel periodo non c’era, il fallimento di quel progetto penso non possa che creargli malinconia».
La mostra conta quasi 80 pezzi sistemati in un allestimento circolare virato sui toni del bianco e del nero, non c’è una gerarchia del lavoro ma una visione globale. Di colorato c’è solo la campagna fotografica della Valentine, la macchina da scrivere portatile dal design di Ettore Sottsass che è la mamma ideale dei device che ci portiamo in giro. Berengo Gardin la contestualizzò in un quotidiano che ci fa da richiamo: il ragazzo accovacciato a fianco dei binari del treno che scrive (chissà se una lettera d’amore o un articolo) prima di partire; l’attore che termina il suo testo a fianco della specchiera con una foto di Pasolini che occhieggia. I semi di un mondo che verrà, il nostro. E sono in bianco e nero ma colorati di emozione i bambini dell’asilo dello stabilimento di Ivrea, gli stessi che giocano a pochi metri dai genitori che lavorano e che corrono verso il mare in colonia. E no, quel mondo invece non è più venuto.