L’elemosina non basta
L’altro giorno, nella sua fluviale conferenza stampa d’inizio anno, il presidente Cirio ha dedicato due minuti d’orologio alla Cultura. Un minuto per dire che ha destinato 51 milioni del Riparti Piemonte alle imprese culturali; e un minuto per annunciare che nel 2021 riaprirà il Museo di Scienze Naturali (lo dicono tutti ogni anno da otto anni), e avvierà il progetto di valorizzazione della Palazzina di Stupinigi finanziato con i fondi europei. Ho fatto notare a Cirio che oggi, da un’amministrazione regionale, mi aspetterei altro.
Oltre ai doverosi ristori e alla conclusione di interventi in ballo da tempo immemorabile — anche una visione per il futuro, un piano di sviluppo per l’intero settore culturale devastato dal
covid, e non solo dal covid. Cirio ha risposto che «i fondi europei sono strutturali, finalizzati a investimenti strategici come il Museo e Stupinigi. Ma non vogliamo far morire nessuno, anche nel 2021 con i ristori garantiremo il minimo vitale». La risposta è cortese, ma non del tutto pertinente: quindi mi permetto di meglio spiegare il mio punto di vista. Premessa: la questione non riguarda soltanto le politiche culturali (o dovrei dire «non politiche»?) di Cirio e della garbata ed evanescente Poggio. Spesso le amministrazioni locali privilegiano lo strumento dei contributi, più o meno a pioggia, a scapito dei progetti strutturali e degli investimenti strategici. È più redditizio in termini di consenso immediato, e nelle botteghe della politica l’unico orizzonte che conta è quello elettorale. Seconda precisazione: avere una visione per la cultura non significa che la
pubblica amministrazione debba sostituirsi all’operatore culturale. Per nulla. Sappiamo quali e quanti danni causi il «dirigismo culturale» dell’ente pubblico che si improvvisa impresario, organizzando direttamente manifestazioni assortite, in sleale concorrenza con i privati. Una visione per la cultura è tutt’altro. Penso ad alcuni strumenti (ad esempio Hangar e la nuova legge di settore) a suo tempo adottati dall’assessore Parigi per uscire da una logica puramente assistenziale e accompagnare gli operatori nei processi gestionali, finanziari e di fundraising. Anziché dare un pesce all’affamato, gli insegni a pescare. Ecco un buon punto di ripartenza: l’impresa culturale ha bisogno di infrastrutture che ne favoriscano la crescita. Ma ha pure ragione Claudia Spoto che ieri, sul Corriere Torino, chiede agli operatori più capacità e disponibilità a fare rete e lavorare
insieme. Stavolta nessuno è abbastanza forte per farcela da solo. Va da sé che il covid ha sconvolto ogni parametro, e all’emergenza non si può che rispondere con misure emergenziali. L’impegno di Cirio a «non lasciar morire nessuno» è doveroso e ovvio finché le attività non ripartiranno a pieno regime. Ma la vera sfida ci attende quando la pandemia finirà. Sarà il Dopoguerra della nostra generazione e, come per quello dei nostri padri e nonni, serviranno ampie vedute, coraggio e immaginazione. I sostegni economici, adesso, sono il pane della Cultura. Ma il nostro Dopoguerra lo vinceremo con le rose che pianteremo oggi e fioriranno domani.
Affrontare un futuro complesso con in mano la riapertura di un museo chiuso da otto anni e la valorizzazione di una residenza sabauda è, mi perdonino Cirio e Poggio, confondere la parte per il tutto. A che servono due realizzazioni importanti, se attorno c’è il deserto? Dice Cirio che i fondi europei sono destinati agli investimenti. Giusto. Ma quali sono gli investimenti? Improvvisiamo all’impronta, o abbiamo uno straccio di strategia per cogliere l’occasione quando l’occasione arriverà? Qui e ora il problema non sono i soldi per finanziare i progetti: il problema è che non abbiamo i progetti. Sento parlare di piani per l’industria, per l’agricoltura, per il commercio, per l’artigianato. Per la Cultura, nient’altro che elemosine. È il solito pregiudizio duro a morire: la Cultura non è produzione, in fondo insieme con il Turismo vale «solo» il 20 per cento del nostro Pil... E sputaci sopra. Ma domani potrebbero valere assai di più, se oltre la siepe delle ciance ci fosse non il buio dell’insipienza, bensì la luce della lungimiranza.