Alberto Alessi: «Il design è l’ultima icona no-global»
Alessi apre il capitale a nuovi soci e punta alla Borsa per crescere all’estero Ma non rinuncia a un modello industriale che dà del tu all’artigianato
Alberto Alessi dal 1970 ad oggi ha prodotto più di mille oggetti diversi, cavatappi a forma di uomini e donne, spremiagrumi firmati Philippe Starck, e altri best sellers che da decenni sono parte dell’arredamento delle case degli italiani. «L’oggetto a cui sono più legato è la 9090, la prima caffettiera per espresso prodotta dalla Alessi e disegnata da Richard Sapper», spiega il presidente dell’azienda fondata cento anni fa a Crusinallo, frazione del comune di Omegna, Verbania.
Alberto Alessi dal 1970 ad oggi ha prodotto più di mille oggetti diversi, cavatappi a forma di uomini e donne, spremiagrumi firmati Philippe Starck, Parmenide, la grattugia che prende il nome di un filosofo, la fruttiera Cactus! la ciotola per gatti Tigrito e altri best sellers che da decenni sono parte dell’arredamento delle case degli italiani. Il presidente dell’azienda fondata cento anni fa a Crusinallo, frazione del comune di Omegna, provincia del Verbano, potrebbe avere l’imbarazzo della scelta a selezionare il prodotto del cuore, eppure non esita nemmeno un istante: a domanda risponde subito, e la risposta ha a che fare con la famiglia più che con gli affari. «L’oggetto a cui sono più legato è la 9090, la prima caffettiera per espresso prodotta dalla Alessi e disegnata da Richard Sapper. Un omaggio al mio nonno materno, Alfonso Bialetti, quello della moka». Le questioni di cuore gli valsero un compasso d’oro (in totale sono sei), l’ingresso nella Permanent Design Collection del Moma di New York, e l’entrata del marchio di famiglia nelle cucine. Oggi Alberto Alessi è un uomo di 75 anni che parla con disinvoltura alternando greco antico e inglese, all’università ha studiato giurisprudenza facendo un compromesso tra economia, il sogno del padre, e storia dell’arte, il suo. «Alla fine le passioni vengono fuori sempre. Da piccolo sognavo di disegnare pasticci, ed eccomi qui, continuo a farlo anche adesso».
I cavatappi di Alessandro Mendini non servono soltanto ad aprire le bottiglie, infatti lei parla di valore poetico degli oggetti. Gli oggetti non sono oggetti e basta?
«Assolutamente no. Io credo che i bravi designer debbano essere come i poeti. Così come il poeta nei suoi versi aggiunge trascendenza alle cose, così il designer deve fare altrettanto con le sue produzioni. Gli oggetti soddisfano il bisogno di arte e di poesia
presente in ognuno di noi».
Lei ha lavorato con i migliori artisti, da Mendini a Mari, da Fuksas a Starck, da Castiglioni a Sottsass. Si ricorda il primo incontro con qualcuno di loro?
«Ettore Sottsass lo incontrai nel 1971. Allora lui aveva la fama di designer della Olivetti, io ero giovanissimo, gli esposi la mia idea di allora che è la stessa di oggi: creare oggetti i più belli e raffinati possibili ma alla portata del grande pubblico. Scopri che la mia idea era anche la sua».
Quale fu il primo lavoro che gli commissionò?
«Un set di vassoi, mai messi in produzione perché erano
un po’ troppo costosi per avere successo. Il primo prodotto di successo fu invece un’oliera, best seller negli anni Ottanta che oggi continua ad essere in catalogo».
Nel mondo contemporaneo della produzione di massa e dell’omologazione, c’è ancora interesse per il design e la cura per l’oggetto?
«L’entrata del digitale e i mutamenti economici e sociali hanno fatto perdere importanza al design. Oggi il rischio è quello che venga considerata non una disciplina artistica e poetica, ma solo uno dei tanti strumenti al servizio del marketing. Ma sono problemi che non mi riguardano, qui in azienda continuiamo a ritenerlo essenziale, e la pandemia e il lockdown ci hanno dato ragione».
In che senso?
«Le persone passano più tempo in cucina e a tavola. Hanno riscoperto il piacere delle cose di casa».
Ikea e simili hanno stravolto il mercato?
«Se faccio il paragone con gli anni in cui ho cominciato, la qualità e l’estetica delle grandi catene è notevolmente aumentata. Oggi nessuna azienda si nega un designer. La Gdo ha il merito di avere democratizzato il design».
Cos’è cambiato maggiormente dagli anni in cui ha iniziato?
«Le liste nozze. Fino a vent’anni fa in Italia le liste nozze rappresentavano il 50% del nostro fatturato. Si trattava di un pubblico particolare che faceva un acquisto per la vita e quindi considerava naturale scegliere tra le cose più preziose. Oggi le liste nozze sono il 10% del fatturato, il restante 40 arriva dall’online».
Dal 2019 Alessi ha fatto spazio a nuovi soci, il fondo inglese Oakley Capital che ha comprato il 40 % dell’azienda. È diventato fondamentale fare sinergia per crescere?
«Volevamo espanderci in aree in cui eravamo presenti ma con poco successo. Da Crusinallo facciamo salti mortali per avere una copertura ragionevole in un mondo sempre più globalizzato. Il fondo poteva darci nuove possibilità di sviluppo».
Quando vi quoterete in Borsa?
«È ancora presto per dirlo. Ci stiamo pensando, ma non sappiamo ancora quando succederà».
Quest’anno Alessi compie cento anni. Come si sopravvive alla produzione di massa per un secolo e oltre?
«Alzando l’asticella, cercando di essere ancora più eccellenti. È vero che la mass production è aumentata di livello, ma continua a riempire il mondo di tanta spazzatura. Ci troviamo davanti a sfide molto importanti: il mondo è sempre più distratto e ci sono sempre meno soldi a disposizione. Le follie degli anni Ottanta oggi non possiamo più permettercele, ma il design, il valore poetico degli oggetti resisterà, almeno, qui da noi non sapremmo come vivere senza».
❞ La produzione di massa ha riempito il mondo di spazzatura. Il nostro modello è alternativo: un oggetto è funzionale se è anche bello