«Torino laboratorio unico»
Trentalange, il presidente degli arbitri e la sua città «La sezione parla coi nomi, i club con i loro progetti»
Alfredo Trentalange è nato a Torino nel luglio di 63 anni fa
Ha cominciato ad arbitrare quando aveva 15 anni arrivando in A dove ha diretto 197 partite (70 nel mondo).
L’associazione Italiana Arbitri lo ha eletto presidente il 14 febbraio scorso
Laureato in scienze motorie e scienze dell’educazione
Esperto di musicoterapia e responsabile delle attività riabilitative al Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese.
Cofondatore di Agape, collabora con la fondazione FARO uscendo dalla scia di Nicchi che ha modificato lo statuto restando 12 anni. Lui ha già promesso che si tornerà indietro, perché bloccare i vertici non fa crescere nessuno, non soltanto tra gli arbitri.
Torinese, il numero uno degli arbitri italiani è legato alla sua città, alla regione e «alla cultura del giovani, che anche tra gli arbitri possono trovare una squadra che funziona, compagni, un gruppo. La sezione di Torino, dove Mazzaferro è presidente, è così: l’arbitro qui, come altrove, non è mai solo ma fa rete, i più giovani hanno un loro gruppo whatsapp dove si scambiano episodi e analisi, discutono». Si cresce per didattica, ma è il confronto che fa migliora tutti, altro mantra di Trentalange.
Torino è la sua sezione, ma è anche casa. Dove?
«Vivo nel quartiere Campidoglio, vicino alla parrocchia di Sant’alfonso ed all’ospedale Maria Vittoria».
Ha lavorato anche lì?
«Sì, come altrove. Ora sono al Fatebenefratelli di San Maurizio. Sono stato insegnante in istituti di formazione professionale e nei licei, ora faccio formazione per la fondazione FARO che ha un hospice a San Vito e si occupa di persone a fine vita. Seguo il personale dai infermieri, agli oss e i medici».
Una vita nella sanità, ma non da medico.
«Sono laureato in scienze motorie e scienze dell’educazione. Ma avevo una passione infinita per psichiatria».
L’associazione Agape, di cui è stato cofondatore, nacque così.
«Vero, si occupava di persone con disagi psichici. Un lavoro iniziato vent’anni fa e grazie al cielo oggi quei ragazzi sono tutti integrati».
Alfredo Trentalange, 63 anni, ha chiuso nel 2003 la carriera in campo. Oggi è osservatore Uefa e istruttore Fifa
Lei cosa faceva?
«Con me giocavano a pallone, spesso contro psichiatri e psicologi. Avevamo bellissime divise, ci si divertiva e con lo sport si aprivano canali di comunicazione preziosissimi».
Il calcio è sempre una metafora della vita?
«Senza dubbi, l’integrità di una persona si riconosce in campo. C’è chi pensa solo a se e non ti passa la palla, chi ti insulta, chi ti consola, chi simula... E se lo fanno lì, lo fanno in ufficio e tra la gente».
Si tiene sempre in forma?
«Corro alla Pellerina, vicino a casa».
Il calcio?
«Prima della pandemia si giocava a pallone, modello oratorio: ogni settimana nello stesso giorno e stessa ora. Ci si trova e si gioca, chi c’è c’è. Anche se chiamarlo calcio forse è una parola grossa… io sono inguardabile, per questo si gioca in un posto “segretissimo”. Ma così torniamo tutti bambini».
Come quando decise di arbitrare, aveva 15 anni.
«Feci un provino con il Toro, ero una mezzala, mi dissero che se amavo il calcio potevo fare l’arbitro».
Davvero?
«No. Mi dissero che potevo fare l’arbitro o il giornalista».
E lo è stato, giornalista?
«Ho restituito anni fa la tessera che avevo preso (dal 1998 al 2012, ndr) quando collaboravo con Sport Piemonte, dove ho avuto direttore anche Gian Paolo Ormezzano».
Torino è una città con tanti problemi e una grande vocazione sportiva.
«Io ne sono innamorato, come amo la storia e la cultura dei campi di calcio torinesi. Ho cominciato nel 1973 e tante società di allora sono ancora laboratori straordinari, dal Cit al Barcanova, il Bacigalupo, il Vanchiglia, il Lucento... Sono tantissimi, non si può fare un elenco. Solo che, come la città, peccano di omissione: non fanno conoscere tutto quel che fanno per noi».
E la città?
«Ha momenti culturali e sociali straordinari ma poco noti. Non abbastanza, sarà che sono innamorato dei santi sociali del Piemonte».
Iniziò a 15 anni. E ogni arbitro fa le giovanili e poi i dilettanti, tutte le categorie.
«Non ne saltiamo una. Conosci e scopri che cosa c’è vicino a casa tua, poi in regione quindi in Italia. Sono esperienze fondamentali e formative anche per chi poi vuol fare il dirigente».
In Terza categoria, quando aveva 17 anni, fu aggredito.
«Presi un pugno in faccia dopo il rosso a un calciatore».
Paura?
«No. Mi spiacque anzi, perché poi i compagni picchiarono lui… Ricordo che arrivava da lontano protestando, io lo misi fuori e lui mi colpì».
Partita sospesa?
«No. Feci un errore tecnico, i compagni menarono lui. E io portai a termine la gara: non è la cosa giusta, in questi casi si interrompe».
Anni dopo, la prima in A: il Napoli di Maradona.
«L’esordio davanti a 60 mila persone e con Diego. Ero felice come un bambino cui avevano regalato un pallone. È stata un’esperienza straordinaria, arrivare in A è il sogno. E quando succede pagheresti tu per fare Inter-milan».
❞ La nostra tradizione arbitrale non è un caso; le società dilettantistiche fanno un lavoro encomiabile che dovrebbero far conoscere meglio
❞ A 17 anni, presi un pugno da chi avevo espulso: fu menato dai compagni
❞ Ancora oggi vado a correre alla Pellerina Ora manca la partita all’oratorio
❞ Faro è la fondazione per la quale faccio il formatore adesso: si occupa di persone a fine vita