Piana: «Io, Miles, Chet e Paolo Conte»
Il trombonista astigiano racconta i suoi 92 anni a ritmo di swing con i big della musica
«C’era la guerra, i miei fratelli più grandi si nascondevano sotto il pavimento del negozio e a casa ero solo con mio nonno. Un giorno ci fu un rastrellamento. Arriva un soldato tedesco, vede il pianoforte che tenevamo in casa e ci chiede chi lo suona. “Renzo”, dice mio nonno, lasciandosi scappare il nome di mio fratello. “E dov’è?”, chiede il tedesco. “Sono qui”, rispondo io d’impulso. “Bene, allora suona”. Avevo poco più di dieci anni, ma conoscevo un po’ la fisarmonica e sapevo dove mettere le mani su una tastiera. Non so chi mi abbia dato l’idea, forse il padreterno, ma mi siedo e inizio a suonare Lili Marleen. Il soldato tedesco si mette a piangere, mi accarezza e se ne va. E si porta via anche i repubblichini, che invece avrebbero voluto proseguire la perquisizione». L’adolescente che nelle campagne di Refrancore sfidava il destino con Lili Marleen si chiama Dino Piana. Oggi è un elegante signore di quasi 92 anni, che giovedì sarà ospite del Torino Jazz Festival.
L’avvocato al piano
Il mio primo datore di lavoro è stato Conte Suonavamo musica da ballo nelle balere Con Mingus al basso
Charles si presentò così: sigaro e cappellaccio nero Avevo paura di lui, poi ho capito che era il migliore
«C’era la guerra, i miei fratelli più grandi si nascondevano sotto il pavimento del negozio e a casa ero solo con mio nonno. Un giorno ci fu un rastrellamento. Arriva un soldato tedesco, vede il pianoforte che tenevamo in casa e ci chiede chi lo suona. “Renzo”, dice mio nonno, lasciandosi scappare il nome di mio fratello. “E dov’è?”, chiede il tedesco. “Sono qui”, rispondo io d’impulso. “Bene, allora suona”. Avevo poco più di dieci anni, ma conoscevo un po’ la fisarmonica e sapevo dove mettere le mani su una tastiera. Non so chi mi abbia dato l’idea, forse il padreterno, ma mi siedo e inizio a suonare Lili Marleen. Il soldato tedesco si mette a piangere, mi accarezza e se ne va. E si porta via anche i repubblichini, che invece avrebbero voluto proseguire la perquisizione».
L’adolescente che nelle campagne di Refrancore sfidava il destino con Lili Marleen si chiama Dino Piana. Oggi è un signore di quasi 92 anni, che giovedì sarà ospite del Torino Jazz Festival. «Uno dei massimi esponenti del jazz italiano», lo presenta Wikipedia. Per poi aggiungere, ruspante, «figlio di pasticceri, cresce nelle campagne del Monferrato astigiano».
«Il mio primo ricordo è un pezzo di legno che battevo su un gradino di casa», racconta Piana. «Avevo tre anni, mia madre mi implorava di smettere e io le rispondevo che stavo finendo la marcia della banda del paese. Poi nella banda ci sono entrato davvero. Volevo la tromba e mi hanno rifilato il trombone, un coso lungo con cui potevo fare solo l’accompagnamento. Lo detestavo, all’inizio. Quando è finita la guerra, abbiamo messo su un gruppo: facevamo In the Mood, Moonlight Serenade, pensavo fosse jazz. “Scherzi? Questo è jazz”, mi dice una sera la mia ragazza e mi fa ascoltare Radio Stoccarda, che trasmetteva per i soldati americani. Così ho scoperto Charlie Parker, Dizzy Gillespie, il be bop».
Refrancore lascia presto spazio a Torino. Sotto la Mole sono anni non facili, in cui Piana passa da un lavoretto all’altro. Ma sono anche quelli di incontri destinati a diventare amicizie solide come querce. Come quella con Enrico Rava («Con cui ci sentiamo quasi ogni giorno e lo scorso anno abbiamo inciso un disco») o con Gianni Coscia, che nel 1959 lo iscrive alla radiofonica «Coppa del Jazz»: il Quintetto di Torino arriva secondo, ma Piana riceve il premio come miglior solista. Pochi anni dopo arrivano la chiamata dell’orchestra tv di Gorni Kramer e il trasferimento a Roma, mai più abbandonata.terra del vino e del jazz, il Piemonte regala grappoli di collaborazioni e succosi aneddoti. Dalle antiche serate in balera con Paolo Conte («il mio primo datore di lavoro: suonavamo musica da ballo, ma c’è modo e modo di suonare anche la musica da ballo») alla lunga palestra di perfezionamento nel quintetto dell’astigiano Gianni Basso e del torinese Oscar Valdambrini.
Dopo il trasferimento nella Capitale, però, le frequentazioni di Piana si ammantano di un’aura sempre più internazionale. «Un giorno ricevo una telefonata da Filippo Bianchi, che mi dice: “dai che ti faccio suonare con il miglior bassista del mondo”. “Chi, Charles Mingus?”. “Proprio lui”. All’inizio rispondo di no. Giravano certe voci sul suo carattere, ero intimorito! Mi ha convinto mia moglie. Erano le sessioni per la colonna sonora di “Todo Modo”, il film di Petri, che poi uscirono solo su disco. Mingus arriva con sigaro e cappellaccio nero. Iniziamo a suonare e sembra di stare in una versione moderna del mondo di Duke Ellington. Un luogo meraviglioso, dove mi sento subito a mio agio».
Con Chet Baker, angelo maledetto della tromba, l’obiettivo si sposta in Versilia, alla Bussola. «Un pomeriggio gli chiediamo di provare prima del concerto, per avere un’idea della scaletta. Acconsente. La sera però si presenta in ritardo, già “fatto” e inizia a suonare tutt’altro. In quel periodo stava molto male, ma di lui ricordo l’arte che aveva dentro. La sua musica mi tocca il cuore come solo quella di Miles Davis». Con cui l’unico contatto avviene invece in cielo.
«Ero in tour con il chitarrista Paco De Lucia, mentre Miles era impegnato nei concerti dei dischi “Live in Europe”. Una sera suonavamo entrambi a Berlino e abbiamo preso lo stesso aereo per Milano. Miles dormì per tutto il volo, mentre i suoi musicisti — Tony Williams e gli altri del “secondo quintetto” — avevano voglia di socializzare. Fu un sogno, mi sembrava quasi di essere uno di loro».
Sempre negli anni Sessanta inizia la lunga collaborazione con Armando Trovajoli, che ci riporta al 2022 e al concerto al TJF con la Torino Jazz Orchestra di Fulvio Albano. L’omaggio di giovedì ha un antenato illustre: un tributo del 2006 a Roma, quando Dino Piana e il figlio Franco presentarono una rilettura jazzistica di brani approvata dallo stesso compositore (scomparso nel 2013). «Gli arrangiamenti sono tutti scritti da mio figlio, che è la persona a cui devo il fatto di essere ancora qui a suonare».
Qual è il carburante che fa ancora bruciare il fuoco? «Mi diverto. Suono tutti i giorni e ogni My Funny Valentine è un’emozione. Spesso improvviso, vado avanti anche per mezz’ora e sento che in quel momento sono sincero. Lo stesso vale sul palco: puoi suonare bene o male, l’importante è che non cerchi mai di illudere il pubblico».