Le amicizie pericolose del vigile Ravinale
La scoperta del suo cadavere fece pensare a un agguato mafioso o alla reazione di ladri. Le indagini rivelarono un’altra pista. Decisiva
Luciano Ravinale aveva 33 anni e faceva il vigile urbano a Torino. I genitori vivevano ad Alba e così sua sorella mentre il fratello, Giacomo, nel 1971 era morto da tre anni, vittima di un incidente stradale. Da quella tragedia in poi, Luciano era restio a raccontare a padre e madre dei suoi spostamenti, perché temeva di nutrire ulteriormente le loro ansie e i loro dolori Quel fine settimana di giugno si era fatto sistemare una noia al motore dell’automobile perché sarebbe dovuto andare a Genova: il suo Torino giocava la finale di Coppa Italia. Il corpo di Luciano Ravinale fu trovato sul Lungo Po Antonelli.
Luciano Ravinale aveva 33 anni e faceva il vigile urbano a Torino. I genitori vivevano ad Alba e così sua sorella mentre il fratello, Giacomo, nel 1971 era morto da tre anni, vittima di un incidente stradale. Da quella tragedia in poi, Luciano era restio a raccontare a padre e madre dei suoi spostamenti, perché temeva di nutrire ulteriormente le loro ansie e i loro dolori.
La trasferta a Genova per il Toro
Quel fine settimana di giugno si era fatto sistemare una noia al motore dell’automobile perché sarebbe dovuto andare a Genova: il suo Torino giocava la finale di Coppa Italia. La sua squadra del cuore vinse il titolo contro il Milan ai calci di rigore, nonostante tre gol di Rivera. Lui fece in tempo a tornare in città, accompagnare a casa i compagni di trasferta e transitare in Lungo Po Antonelli, con l’intenzione di svoltare a destra su ponte Sassi e tornare nel suo appartamento di via Castiglione. Così, almeno, pareva.
L’agguato mortale
Il corpo di Luciano Ravinale fu trovato sul Lungo Po Antonelli, non lontano dal suo veicolo con fari accesi e portiera del guidatore aperta, la notte tra sabato e domenica 27 giugno. Due bossoli accanto al corpo e tre fori di proiettile, uno al torace e due alle spalle. All’arrivo dei soccorritori era ancora vivo ma non riuscì a dire nulla su ciò che gli era capitato. Ebbe soltanto la forza di pronunciare alcune parole: «Sollevatemi, il sangue mi va alla testa», prima di essere caricato su un’ambulanza e morire ancora prima dell’ingresso alle Molinette. La sua pistola, non usata per sparare quella sera, era stata buttata verso il fiume dagli assassini, qualche metro più in là.
Il movente e le piste seguite
«Il vigile assassinato a Torino forse da mafiosi o da ladri sorpresi», titolava il quotidiano della città, a caratteri cubitali. Non si pensava ad altro che non alla pista professionale, sia per la modalità di esecuzione sia per i racconti dei colleghi e degli amici: Ravinale era il prototipo del bravo ragazzo. Fidanzato con una ragazza, Jolanda, che faceva la cassiera in una birreria di via Lagrange, mai si era venuto a sapere di una parola fuori posto o di una litigata violenta. Per anni, prima di essere spostato in piazza Bengasi nella primavera del 1971, aveva pattugliato il mercato di Porta Palazzo; nonostante fosse notoriamente un posto un po’ agitato, non era mai successo nulla e il comando dei vigili lo riteneva un elemento particolarmente affidabile, tanto da offrirgli mansioni delicate. Sulla dinamica del delitto, giacché nessuno poteva sapere che sarebbe passato nel viale a quell’ora della notte, di ritorno dallo stadio, la possibilità di un omicidio maturato per caso era ritenuta la più plausibile. Si parlò a lungo di due o addirittura tre killer, perché forse uno dei tre colpi proveniva da un’altra arma e qualcuno, dal balcone di una casa, uditi gli spari si era affacciato e aveva visto un uomo attendere due sparatori e poi fuggire insieme a loro.
Le indagini
La realtà ricostruita dalle indagini cambiò, però, sostanzialmente il copione.
Quello che poteva sembrare un delitto nato dal senso del dovere di Ravinale non collimava con alcune risultanze. L’orario dell’omicidio, intanto, perché troppo avanzato rispetto agli spostamenti di quella sera della vittima. Pareva essere un appuntamento, più che un passaggio casuale, anche perché il vigile si era portato dietro la pistola d’ordinanza.
La ragazza siciliana
A chiarire definitivamente la situazione anomala ci pensò una ragazza siciliana residente a Torino, Celestina Magro. Ai carabinieri raccontò di essere stata la sua amante e di esercitare la professione accogliendo clienti in casa, sotto la supervisione di un certo Giuseppe Sammartino, pure lui legato alla donna da una relazione sentimentale. Celestina spiegò di essere stata costretta, nel tempo, a imprestare 30.000 lire a Luciano Ravinale. I due si erano accordati per trovarsi all’uscita di un locale di corso Svizzera, il Dollaro, proprio quella notte, per la restituzione dei soldi. «Di questo fatto — mise a verbale la donna — era a conoscenza il Sammartino che, poco dopo l’una, andò a cercare il vigile. Alle due e mezza del mattino, il Sammartino mi raggiunse in una pizzeria di via Sant’agostino, e mi confessò di avere avuto una discussione con lui e di essere stato costretto a sparargli».
La gelosia
Il movente, la gelosia. Furbescamente, poi, l’assassino era scappato nel suo paese natale, Vittoria in provincia di Ragusa, proprio il giorno dopo i fatti.
Catturato, tentò di balbettare di essere in fuga da creditori di una bisca clandestina ma in corte d’assise non gli diedero retta. Prese l’ergastolo. In appello, la pena fu ridotta perché l’accusa non riuscì a provare le aggravanti, ossia la premeditazione e i motivi abietti — l’ipotesi era che Sammartino avesse ammazzato Ravinale anche per poter continuare a sfruttare il mestiere della donna. Nessuno si arrischiò più a relazionare sul vigile eroe morto per sventare un crimine. La signora fece due anni di galera e venne assolta in secondo grado. Gli stessi cronisti che avevano gridato ai quattro venti per lo scandalo dell’uccisione a sangue freddo di un coraggioso membro delle forze dell’ordine, a stento diedero notizia della sentenza definitiva, arrivata nel 1975: ventitré anni di prigione.