Famiglie e gerarchie
Direttore carissimo, la sua Annina e famiglia questa settimana alle prese con la lettera M, che è molto facile come suggerisce la nonna: «Madama», dal francese Madame detto di signora riferendosi alle due celebri madame sabaude, Maria Cristina di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoianemours che, rimaste vedove dei rispettivi sovrani, furono messe a riposo (si fa per dire) dai figli diventando le suocere in carica. L’imponente Palazzo Madama piantato in mezzo a Piazza Castello a Torino le ricorderà nei secoli dei secoli. La ferrea etichetta piemontese vuole che la signora sposata diventi ufficialmente Madama a tutti gli effetti quando nasce il primo nipote. In mancanza di discendenza intorno ai sessanta ha diritto di fregiarsi dell’ambito titolo. Se poi invecchiando diventa grassa oltre ogni dire (vedi Maria Giovanna di Nemours) eccola tramutarsi in Madamùn o familiarmente Trumeau tradotto Trumò, come sappiamo mobile rococò di una certa maestosità e molto ornato. Se oltre che rotonda è anche ciarliera e magari sciatta eccola Madamassa, dispregiativo per sottolinearne l’ingombro. La suocera invece è la Madòna, con una enne sola. Tipico ascoltare questo intermezzo: «Come sta tua madòna?», e dopo un abbondante scrollare di mani l’altro risponde: «Ehhh». Ma il termine che preferiamo, celebre ormai nel mondo intero è Madamìn, detto di giovane sposa. La madamin è quella fragrante e maliziosa giovin signora torinese cantata e catalogata da Gozzano: «Io son innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie. Signore e signorine, le dita senza guanto, scelgon la pasta, quanto ritornano bambine! Perché niun le veda, volgon le spalle, in fretta sollevan la veletta, divorano la preda». tipo Maria Cristina di Francia eterna madamin anche anzianotta perché ci teneva molto agli amanti freschi e alla linea. Le madamin, come vuole la tradizione, si allenano fin da subito per diventare poi imperiose madame e in seguito spietate madòne. Ma son soprattutto sollevate di essersi maritate perché, altrimenti, sarebbero rimaste tote, cioè nubili, condizione ambigua: «Chissà perché tota Mariuccia a le nen spusase?», «Ma l’hai guardata?», ecco. Precedentemente fìa, ragazza, una volta tota, dai trenta in su rischia di diventare un tutùn, infelice signorina senza marito (un tempo infelice, oggi ben contenta). Tutùn è anche lo scapolo soprattutto se lamentoso e sempre al bar, se più prestante è il classico, adorato dai nipotini, barba n’cà, lo zio in casa, o anche, molto dispregiativo, Giacu fumna, alla lettera Giacomo donna, detto di maschio che fa i lavori domestici tipo lavare e stirare, aborrito nomignolo che può anche alludere a infamanti gusti sessuali, atensiùn! I neonati sono i cit, e restano tali fino a quando vanno alle elementari, poi sono masnà, sempre al femminile e plurale, e se sono monelli desgrasià d’na masnà! Un adulto giocherellone è una combinazione di età: masnà cita, ragazzino non cresciuto di cervello. Gli adolescenti restano in eterno dei desgrasià ma se mettono la testa a partito diventano un brau giuvinòt o na brava fìa. Il vecchio e saggio capo famiglia, un tempo riverito e oggi ricoverato alle Rsa, è (o era) il chè pronunciato cè, sissì, come Guevara. La zia è la magna e come abbiamo visto lo zio è il barba, i cugini i cusìn come in francese, la cognata la cugnà, esattamente come la confettura di frutta o vino da mangiare col bollito. Che belle le famiglie di una volta, che rilassanti gerarchie. Qui sentiamo un gran fragore e ci sporgiamo allarmati alla porta: è Gemma che è scivolata sul pavimento bagnato, ma subito si rialza baldanzosa massaggiandosi il braccio: «Ho preso una mina!» Chissà, un residuato di guerra. Si sfrega la spalla: «Uffa, domani mi verrà un nis grosso così!» Che sarebbe poi un livido.