«Sono un egittologo e lo rimarrò anche se dovessi andare a servire cappuccini»
Credo che entrambi i protagonisti del pasticciaccio combinato da Marrone siano, oggi, abbastanza stupiti di quanto sta accadendo. Marrone perché in fondo ha detto ciò che tutti già sapevano. Greco perché, lui per primo, lo sapeva: la destra tutta — non solo Marrone — a Greco gliel’ha giurata da quel 9 gennaio 2018, quando affrontò una agitata Meloni di lotta — accorsa a accusarlo di filoislamismo per via dell’ingresso gratuito all’egizio offerto alle persone di lingua araba — spiegandole con la sua consueta e dotta cortesia che non tutti gli arabi sono islamici né tutti gli islamici sono arabi. Seguì lo sdegnato appello pro-greco degli egittologi, e a ruota l’anatema del Mollicone, allora responsabile della comunicazione di FDI e oggi presidente della Commissione cultura della Camera: «Stiano tranquilli il direttore Greco e gli estensori dell’anacronistico appello. Una volta al governo Fratelli d’italia realizzerà uno dei punti qualificanti del proprio programma culturale che prevede uno spoil system automatico per tutti i ruoli di nomina, in modo da garantire la trasparenza e il merito, non l’appartenenza ideologica». E le promesse elettorali, si sa, in Italia si mantengono. Quelle che comodano, perlomeno.
Certo, allora FDI non era al governo, oggi sì: certe minacce hanno un peso diverso. Ma Greco reagisce come sempre: non fa un plissé, ed elude con classe naturale le domande dei giornalisti che cercano la caciara: «Non replico, non faccio politica, mi dedico all’antico e non alla contemporaneità. Mi piacerebbe che il direttore fosse invisibile, che parlasse la sua squadra. Oggi abbiamo una squadra di 70 persone, un museo che scava in Egitto, stiamo lavorando per il bicentenario. Avendo questa responsabilità incredibile mi faccio sempre forza sul fatto che qualunque cosa è insignificante rispetto alla vita dei nostri oggetti. Sono oggetti che hanno una vita media di 3.500 anni, vuole che si spaventino di un direttore? Andiamo avanti, il Museo Egizio va avanti. I direttori passano, il museo rimane. Da due secoli».
Non è un atteggiamento forzato. Ieri mattina, prima dell’arrivo dei cronisti in caccia di succose dichiarazioni, abbiamo amabilmente chiacchierato di comuni interessi; di un libro su Alcibiade che Christian sta leggendo e che, mi assicura, è straordinario ma, peccato per me, non è ancora tradotto dall’olandese; e poi delle sue vacanze in Grecia, in un’isoletta del Peloponneso che ben conosco e che non mi sorprende l’abbia stregato al punto da progettare di prendervi casa, per un domani trascorrere una serena pensione pescando. Cose così, insomma: cose di cui non parla un uomo angosciato o offeso.
Tutt’attorno a Greco, invece, la caciara ieri scoppiettava allegramente. Adesso che è svanita la speranza di poterla risolvere con la consueta strategia del tacere e sopire, la politica s’infervora come da copione: un’interpellanza
❠ Gli impegni Abbiamo un team di 70 persone, un museo che scava in Egitto e lavoriamo al bicentenario
❠ L’auspicio Mi piacerebbe che il direttore fosse invisibile, che parlasse la sua squadra
non si nega a nessuno. Greco, invece, non s’infervora manco un po’. E perché dovrebbe? Sa perfettamente due cose: sa che a tempo debito e salvo improbabili resipiscenze lorsignori gli daranno il benservito — altrimenti che gusto avrebbero a comandare? — ma sa pure che, un minuto dopo che gli avranno dato il benservito, lui avrà già un altro incarico, meglio pagato e in un Paese civile dove i direttori si valutano, appunto, per il merito e non per le genuflessioni. Quindi si può persino concedere un piccolo capolavoro d’orgoglioso understatement: «Sono un egittologo e lo rimarrò anche se dovessi andare a servire cappuccini in un bar di Porta Nuova». Quando mai potrà dire qualcosa del genere un assessore o un deputato?