L’archivio che riporta alla luce la memoria
Aquasi due anni dal suo avvio, il progetto di Archivio storico fotografico digitale del Museo Egizio — passo importante verso il bicentenario del museo, nel 2024 — cresce grazie a nuove immagini dalle collezioni fotografiche dell’archivio di Stato di Torino, del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino e del Centro di Egittologia Francesco Ballerini di Como. Sono circa mille scatti dell’inizio del Novecento che documentano gli scavi condotti in un’area molto estesa, da Giza ad Assuan. Si tratta di un progetto pressoché unico, avviato nel 2014 grazie al curatore dell’egizio Beppe Moiso (oggi affiancato da Tommaso Montonati) e sostenuto con convinzione dal direttore Christian Greco: «L’unico modo per decolonizzare i musei è condividere le sue immagini e i suoi materiali, aprirsi agli altri, dagli studiosi specialisti al più vasto pubblico», ha dichiarato ieri, nel corso della presentazione del progetto. Gli ha fatto eco Cecilia Pennacini dell’università di Torino: «Lo strumento digitale consente una condivisione scientifica con il mondo degli studiosi internazionali, perché oggi non si può e non si deve lavorare da soli. Ma servono investimenti convinti e più risorse economiche».
Vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo, fino al momento della scoperta e dello scavo delle opere poi esposte nelle sale del museo (o conservate nei suoi ricchissimi depositi, in parte visitabili), l’archivio storico fotografico digitale del Museo Egizio conta ad oggi circa 3 mila immagini digitalizzate (ma sono 45 mila quelle conservate dal museo in ambienti climatizzati, all’interno di apposite cassettiere per stampe, lastre di vetro e celluloide, diapositive...). Sono tutte scattate tra la fine dell’ottocento e gli anni Trenta del Novecento e documentano le missioni archeologiche in 14 diverse località dell’egitto. Quindi non solo immagini di singoli manufatti, ma anche vedute che oggi permettono di comprendere meglio il contesto delle
Arriva online la banca dati che riunisce migliaia di immagini provenienti dall’egizio, dall’archivio di Stato e dal Museo di Antropologia
In Egitto Si tratta di circa mille scatti che documentano gli scavi di inizio Novecento
diverse campagne di scavo. L’affascinante documentazione si deve in primis a Ernesto Schiaparelli (1856-1928), fondatore delle Missioni Archeologiche Italiane nonché direttore del Museo Egizio dal 1894 alla sua morte. È lui a intuire le potenzialità del mezzo fotografico e ad adottarlo nelle missioni per documentare ogni singola fase di scavo. Una scelta «di grande arguzia e lungimiranza», ha sottolineato Moiso. Questo ulteriore passo verso il bicentenario del più antico museo egizio al mondo è reso ancora più significativo dal fatto che di molti dei negativi e delle lastre fotografiche andate perdute negli anni è stata ritrovata la stampa cartacea. Che, a sua volta, è stata digitalizzata ed è ora parte dell’archivio storico fotografico digitale. L’archivio di Stato, ad esempio, conserva gran parte della sua documentazione storica dell’egizio poiché, fino alla nascita della Fondazione nel 2004, è stato un normale «ufficio periferico» dello Stato. Proprio dall’archivio di piazza Castello, diretto da Stefano Benedetto, sono giunte oltre 350 immagini digitalizzate, che originariamente integravano la documentazione scritta durante le campagne di scavo. Al Museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino appartengono invece gli scatti dell’antropologo Giovanni Marro, stretto collaboratore di
Schiaparelli, che fanno dialogare campi diversi tra loro come antropologia ed egittologia. Il fondo Francesco Ballerini, altro collaboratore di Schiaparelli, è costituito da circa cento fotografie appartenute alla famiglia e ora alla fondazione a lui intitolata. «Questa collaborazione tra diverse istituzioni, separate fisicamente ma collegate grazie ai mezzi digitali, consente oggi a tutti di accedere alla conoscenza. E lo fa attraverso gli archivi che», sintetizza Greco, «combattono contro il rischio maggiore che corre oggi il patrimonio culturale: la perdita della memoria».