I tesori della Casa del Pingone ci raccontano il Medioevo
Ha inglobato l’ultima torre medievale ancora visibile in città, il restauro ha esaltato i soffitti la colorazione esterna e il loggiato all’ultimo piano
Recentemente riportata a nuova vita da un progetto che ha inteso fondere in un unico spazio cultura e ospitalità, la grande Casa che fin dal medioevo si affaccia sul principale cardus cittadino, su via della Basilica all’incrocio con via Porta Palatina, racconta una lunga storia.
Più che una casa è un complesso di edifici ed è uno dei pochissimi esempi di quella che dovette essere l’edilizia privata nel medioevo a Torino, quando la romanità era ormai lontana ma ancora resisteva la scacchiera delle insulae generate dall’incrocio fra i due grandi assi viari. Abitava qui un importante e potente figura della corte sabauda, il barone Emanuele Filiberto Pingone, originario di Chambery, «addottorato in legge all’università di Padova» e poi al servizio dei Savoia presso la cui corte fece una carriera brillante. Dapprima al servizio di Carlo Emanuele I, diventò poi ambasciatore a Nizza per il Duca Emanuele Filiberto di Savoia e acquisì il titolo nobiliare. Eccentrico studioso di cose antiche (Luigi Gramegna lo definirà nel suo libro «fanatico interrogator di cocci antichi»), molto noto ai suoi tempi per aver scritto un libro che ricostruiva la storia della Sindone, attese per molta parte della sua vita all’inclytorum Saxoniae Sabaudiaeque principum arbor
gentilizia, cioè al tentativo di scrivere una genealogia dei Savoia che ne magnificasse le nobili origini, sostenendo che questa avesse avuto origine da un capostipite sassone: il mitico re Beroldo.
È da lui, Monssù Pingon, che la bella casa ha preso il toponimo che ancora oggi la individua. La casa è piena di tesori, che il tempo e i restauri hanno rivelato negli anni.
Intanto, custodisce quel che resta, sebbene quasi completamente inglobata dalle successive stratigrafie, dell’unica torre medievale rimasta a Torino e la si può vedere da un punto di osservazione molto in alto, come la terrazza panoramica del Santo Stefano (se siete ospiti), attiguo. I restauri del 2004 hanno permesso di ripristinare i merli a coda di rondine e i beccatelli aggettanti della torre, oltre a un frammento di muratura a spina di pesce.
Poi, Sul lato di via Porta Palatina sono stati recuperati cospicui resti di finestre di epoca quattro cinquecentesca, a crociera e a sesto ribassato. «La sovrapposizione dei vari strati di intonaco ritrovati sulle pareti del salone al primo piano – scrivono Luca Emilio Brancati e Federico De Giuli – rivela almeno due periodi principali tra quelli più antichi: il primo, risalente alla fine del XV secolo, epoca in cui tutto l’edificio aveva finestre incorniciate da decori in cotto che sono state ritrovate e lasciate visibili in facciata: e insieme ai modellati in cotto si sono ritrovati anche frammenti di intonaco rosso con filettature bianche che ha suggerito l’attuale colorazione della facciata dell’edificio» e una seconda fase di ristrutturazione dell’edificio non databile con certezza ma che potrebbe essere relativa agli anni in cui la casa fu stata abitata da Emanuele Filiberto Pingone, individuata da un secondo tipo di intonaco.
A questa fase appartiene il grande soffitto cinquecentesco a cassettoni, dipinto con decorazioni policrome, i cosiddetti «affreschi a grottesche» che rappresentano un vero tesoro artistico. I soggetti del ciclo sono ispirati alla classicità pagana, come è tipico delle grottesche diffuse in Italia lungo tutto il XVI secolo, e sono infarcite di rimandi e riferimenti a simbologie e figure del mondo alchemico ed esoterico (si vociferava che Pingone fosse un alchimista, peraltro) oltre a conservare, ben visibili, tre monogrammi superstiti con le iniziali di casa Savoia e rimandi al mondo degli inferi.
Certamente la casa fu soggetta a una profonda ristrutturazione, finalizzata ad aumentare il prestigio e il lusso dell’edificio, forse per l’urgenza di dare una immagine più moderna all’allora capitale e per arricchire il salone d’onore con un ciclo di affreschi commemorativi.
L’ultimo piano è caratterizzato da un bellissimo loggiato dotato di archi a tutto sesto. Un dettaglio infine, curioso e simbolico: è di età romana il grosso frammento di mattone trovato durante lo scavo che ha accompagnato i restauri, sul quale è stato tracciato, prima che venisse cotto, un tavoliere di gioco: si tratta di un «mulino» all’interno del quale campeggia la sigla «AB+», dall’interpretazione incerta, forse il nome stesso dell’antico gioco (archeocarta).
Alla fine del XVI secolo tutto l’edificio aveva finestre incorniciate da decori in cotto