Corriere Torino

«Jazz is Dead, festival senza generi per abbattere ogni tipo di barriera»

L’ideatore e direttore Alessandro Gambarotto presenta l’evento al via venerdì Tra gli ospiti in arrivo al Bunker: Basinski, I Hate My Village e Daniela Pes

- Luca Castelli

Ancor prima della voce, dal telefono di Alessandro Gambarotto — per tutti «Gambo», direttore del festival Jazz Is Dead che da venerdì a domenica torna al Bunker — esce la musica. «Sono i Giulia Döner», dice. «Un gruppo garage torinese, oggi è uscito il loro nuovo disco».

È un teorico dell’aggiorname­nto musicale continuo? O nella sua giornata trova spazio anche il silenzio?

«Il silenzio è dopo i concerti, per il resto ascolto sempre qualcosa. E l’aggiorname­nto è garantito dal magazzino di dischi torinese Ultrasuoni. Ormai mi conoscono dalla testa ai piedi».

Arrivano da lì anche gli artisti di Jazz Is Dead?

«Quello che propongo è sempre ciò che ascolto. L’unica eccezione è il metal: non riesco ad ascoltarlo a casa, solo dal vivo. Nel 2023 abbiamo avuto i Boris, quest’anno i Godflesh».

Il jazz del nome, il metal dei Godflesh, ma anche elettronic­a, noise, incursioni africane. È difficile trovare un genere di riferiment­o per Jazz Is Dead.

«È una mutazione delle ultime tre edizioni, ormai siamo un festival senza generi. Oggi tutto è in transizion­e, incrociato, non ci sono più musiche pure: Basinski fa ambient, ma campiona suoni industrial­i. Daniela Pes canta in una specie di sardo ma il suo non è folk, è pieno di droni. Siamo dentro al nostro tempo: vogliamo abbattere tutto ciò che è barriera, anche nelle idee artistiche».

Non c’è il rischio di un effetto minestrone? Come riuscite a raccontare un festival senza generi?

«Attraverso le atmosfere. Il venerdì proponiamo sonorità sperimenta­li, il sabato calde, la domenica profonde. Seguiamo le orme di Pierre Schaeffer, il musicologo francese che per primo esplorò i rumori e li descrisse parlando di sensazioni».

Bastano le sensazioni ad attirare il pubblico? O servono ancora i nomi?

«I nomi tirano sempre, anche in una nicchia come la nostra. Negli anni però siamo riusciti a fidelizzar­e tanto pubblico: a Torino, in Italia, anche in Europa. In buona parte sono spettatori giovani, smart, aperti, inclusivi, che annusano i luoghi e capiscono ciò che può attirarli».

Come mai per la prima volta l’ingresso è a pagamento?

«Ce l’ha chiesto proprio una parte di pubblico, quello più interessat­o alla musica, per aver la possibilit­à di seguir meglio i concerti. Io farei entrare tutti, ma il discorso è logico. Inoltre avremo un nuovo palco esterno che ha costi molto alti. Abbiamo esaurito le prenotazio­ni online e i 400 abbonament­i, ma non dichiariam­o sold out ufficiali: il “biglietto” è un contributo all’ingresso riservato ai soci Arci, abbiamo tenuto ingressi alla cassa per ogni giornata e puntiamo sulla turnazione. Abbiamo visto gli scorsi anni che chi arriva nel pomeriggio difficilme­nte si ferma fino alle due di notte. La capienza è di 1.500 persone: se qualcuno va via, facciamo entrare qualcun altro».

Avete ricevuto molte richieste per il biglietto popolare a 5 euro, per chi dichiarava di non

I volti

In alto: a sinistra, William Basinski (foto D. Pellegrine­lli); a destra, Daniela Pes; sotto: a sinistra Aunty Rayzor e a destra Moritz Von Oswald poter sostenere la spesa intera di 10 euro?

«Ce l’hanno chiesto soprattutt­o i giovanissi­mi ed è bello, perché era pensato in gran parte per loro».

Vi siete giocati due pilastri come Suzanne Ciani e John Zorn nelle anteprime, come mai?

«Ne abbiamo tanti altri nel weekend. Moritz von Oswald ha creato la dub techno, Dj Storm la drum’n’bass, gli I Hate My Village di band-pilastro ne uniscono praticamen­te quattro. E poi ci sono icone contempora­nee come Marta Salogni e Valentina Magaletti».

Jazz Is Dead poteva nascere solo a Torino?

«Torino aiuta perché è da sempre all’avanguardi­a: da quando ospitò per prima in Italia Louis Armstrong al punk, dalle occupazion­i a Musica90. La differenza è che una volta tutto era più identifica­to: quando ho iniziato a ballare io, dovevi scegliere se essere tarro, alternativ­o, reggae, punk e solo i Murazzi mescolavan­o un po’ le carte, perché — come diceva Culicchia — erano il “cesso” di Torino e alla fine di una serata tutti hanno bisogno di andare in bagno. Oggi la città è cosmopolit­a, piena di universita­ri fuorisede, tracciare le identità è impossibil­e».

Le atmosfere

Il venerdì proponiamo sonorità sperimenta­li, il sabato calde, la domenica profonde

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