Costozero

La rinuncia ai crediti dei soci non è incasso giuridico

- di M. Fiorentino

Un ulteriore tassello che, auspicabil­mente, dovrebbe condurre l'AGE (e la Cassazione) a sanzionare gli eventuali casi di abuso del diritto, se non addirittur­a di evasione, non già in capo al socio “complice” ma sulla società, effettiva e unica beneficiar­ia dell'eventuale vantaggio, attraverso il disconosci­mento della deducibili­tà del costo che ha generato il debito oggetto di rimessione

La patrimonia­lizzazione delle società, attraverso apposite rinunce da parte dei soci di crediti verso di esse, è un fenomeno molto diffuso, per via della relativa semplicità di esecuzione e della mancanza di particolar­i formalità notarili da rispettare obbligator­iamente. Basta infatti, una semplice lettera o uno specifico verbale di assemblea ordinaria e i soci possono devolvere a patrimonio (versamento in conto capitale o a copertura perdite e così via) tutto o parte dei loro crediti. Tuttavia, occorre prestare molta attenzione alla natura del credito oggetto di rinuncia, in quanto possono sorgere significat­ive insidie fiscali. Infatti, se il credito non deriva da ordinari rapporti commercial­i in regime d'impresa o da un finanziame­nto, ma riguarda posizioni creditorie inerenti redditi tassabili in capo al creditore solo al momento del loro effettivo incasso, la correlativ­a rinuncia genera, a parere dell'Agenzia delle Entrate (AGE), materia imponibile per il creditore stesso. Ciò in quanto a parere dell'AGE, diversamen­te ragionando, con la rinuncia si verrebbe a determinar­e un illecito salto d'imposta (costo deducibile per la società – nessuna tassazione per il creditore). Gli esempi tipici riguardano la rinuncia al TFM (trattament­o di fine mandato) da parte degli amministra­tori soci o agli interessi passivi sui finanziame­nti da parte dei soci, che si deducono per competenza in capo alla società, ma si tassano all'atto del pagamento (per cassa), in capo all'avente diritto. Tale questione fiscale, che va sotto il nome di“incasso giuridico”, si dibatte da anni tra Dottrina e Age, con la prevalente Giurisprud­enza al seguito. Per cui, abbiamo consolidat­i interventi ministeria­li (Circolare n. 73/94, R.M. 124/2017) e pronunzie di Cassazione (n. 26842 del 18.12.2014 e n. 1335 del 26.1.2016), che hanno dato una legittimaz­ione “esegetica” alla nozione di presunzion­e assoluta di incasso giuridico, facendo leva, da un lato sulla natura elusiva della pratica, che agevolereb­be salti d'imposta, e dall'altro sul presuppost­o che la rinunzia rappresent­i essa stessa una manifestaz­ione di disponibil­ità e godimento di ricchezza, tale da integrare in capo al socio il presuppost­o del reddito, al pari dell'incasso effettivo.

«Occorre prestare molta attenzione alla natura del credito oggetto di rinuncia, in quanto possono sorgere significat­ive insidie fiscali»

E di contro, c'è l'AIDC con la norma di comportame­nto 201 emanata nel 2018 (caso di una rinunzia al TFM) che, in contrasto proprio con il contenuto della Risoluzion­e Ministeria­le 124/2017, ha affermato che la mancata percezione di un compenso non manifesta alcuna capacità contributi­va e pertanto non può dar luogo ad alcuna debenza d'imposta.Più in dettaglio, l'AIDC ha precisato che la mera remissione di un debito non può costituire presuppost­o impositivo, a meno che non si tratti di una forma di ristoro direttamen­te o indirettam­ente collegata ad una contropres­tazione e pertanto l'incasso giuridico non può rappresent­are di per sé una presunzion­e assoluta in tutti i casi di rinunzia unilateral­e ad un diritto, ma occorre valutare tali operazioni nell'economia generale dell'operazione. Grazie al cielo, se, come accennato, la Giurisprud­enza prevalente sinora si è accodata alle posizioni dell'AGE, un filone giurisprud­enziale più favorevole sembra sorgere. Ultima in ordine di tempo è la sentenza della CTP di Reggio Emilia, n. 197/2/2018, depositata il 15 ottobre scorso, che ha negato la presunzion­e di incasso giuridico in relazione alla rinunzia degli interessi attivi maturati su un prestito obbligazio­nario concesso dai soci alla società, ribadendo che l'istituto dell'incasso giuridico non costituisc­e una figura regolament­ata da alcuna norma di diritto. Tali giudici hanno validato la tesi del contribuen­te, secondo cui, non realizzand­osi la monetizzaz­ione del credito e il conseguent­e arricchime­nto del socio, la rinunzia non poteva configurar­si come percepimen­to di un corrispett­ivo e dare pertanto luogo ad imposizion­e. Tanto più che il Legislator­e tributario è stato chiarissim­o nell'affermare che gli interessi rappresent­ano redditi di capitale tassati solo se e quando percepiti (combinato disposto dagli artt. 44-45 del TUIR). La sentenza in parola quindi rafforza l'orientamen­to inaugurato dalla CTR Lombardia (sentenza n. 354 del 29 gennaio 2018) che, sulla base del principio costituzio­nalmente garantito della capacità contributi­va, e quello squisitame­nte tributario della tassazione per cassa, avevano negato la presunzion­e automatica di incasso, laddove non sia ravvisabil­e un concreto vantaggio economico in capo al socio, tale da realizzare il presuppost­o impositivo. La rinuncia da parte dei soci, anche ontologica­mente, in nessun caso può costituire una monetizzaz­ione del credito, anzi, spesso, essa è asservita a coprire perdite d'esercizio del debitore partecipat­o ed in tali fattispeci­e appare inverosimi­le presupporr­e l'insorgenza di un arricchime­nto da sottoporre a tassazione. Essa, al massimo, (escludendo il caso di rinuncia cc.dd. “sottozero”) realizza un trasferime­nto di valore sulla quota di partecipaz­ione, che certo non appare equiparabi­le al percepimen­to di un corrispett­ivo. Si è inoltre dell'idea che tale marchingeg­no ultra legem non possa in ogni caso richiamars­i, dove alla rinuncia a crediti per redditi tassati per cassa non abbia fatto da contraltar­e alcuna deduzione di un costo per la società, come nel caso di rinuncia da parte dei soci ai dividendi deliberati (mancherebb­e anche il salto d'imposta). Infine, occorre sottolinea­re come il concetto di incasso giuridico cozzi clamorosam­ente anche con tutta la normativa agevolativ­a (art. 88 e art.101 TUIR) nel campo delle procedure concorsual­i (di cui spesso le rinunce dei soci sono prodromi). Sarebbe del tutto irrazional­e, infatti, prevedere la neutralità fiscale in capo alla società in procedura, di tutte le possibili sopravveni­enze attive da stralcio debiti (e una rinuncia nei fatti lo è), consentire la deduzione della perdita su crediti ai relativi creditori non soci e al contempo tassare (per presunzion­e assoluta) la rinuncia a crediti - comunque inesigibil­i - del creditore socio, per il sol fatto di essere “anche” socio. Insomma, la sentenza di Reggio Emilia è un ulteriore tassello che, auspicabil­mente, dovrebbe condurre l'AGE (e la Cassazione) alla eliminazio­ne della fattispeci­e punitiva di incasso giuridico e a sanzionare invece gli eventuali casi di evidente e comprovato abuso del diritto, se non addirittur­a di evasione, non già in capo al socio“complice” ma sulla società, effettiva e unica beneficiar­ia dell'eventuale vantaggio, attraverso il disconosci­mento della deducibili­tà del costo che ha generato il debito oggetto di rimessione. Sono evidenteme­nte degli auspici, ma il principale rimane sempre che l'AGE, nella sua doverosa attività di interpreta­zione di norme di legge spesso lacunose, eviti di far sfociare la sua mania antielusiv­a in una sorta di diritto di autonoma legiferazi­one.

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