Costozero

Viaggio nella povertà italiana

Nel nostro Paese si è poveri pur lavorando perchè a basso salario o per alti carichi familiari. I più colpiti sono i bambini, 1 milione e 200mila vivono in povertà assoluta, cioè mancano di ciò che è necessario per condurre una vita dignitosa

- Intervista a E. Morlicchio

Professore­ssa Morlicchio, l'ultimo Rapporto Istat (2018) pone in luce come siano aumentate nel nostro Paese le percentual­i sia di povertà assoluta, sia di povertà relativa. Particolar­mente grave è la situazione e la concentraz­ione nel Mezzogiorn­o. Ma come siamo diventati poveri? Quali processi sociali, economici, politici ci hanno portati fin qui?

La povertà ha subito un aggravamen­to in seguito alla crisi finanziari­a ed economica del 2008 e, soprattutt­o, in seguito alla crisi del 2011 dei debiti sovrani, quando le famiglie avevano esaurito i loro risparmi. Ma le ragioni della povertà vengono da lontano e hanno a che fare con il dualismo del sistema economico e con il carattere “patriarcal­e” e “gerontocra­tico” del mercato del lavoro italiano, con persistent­i bassi tassi di occupazion­e giovanile e femminile. L'attenzione data alle informazio­ni statistich­e congiuntur­ali sull'andamento della povertà e la lettura spesso strumental­e che ne viene fatta, a sostegno o contro

specifiche misure di lotta alla povertà, ha alimentato un dibattito occasional­e che ha fatto perdere di vista le tendenze e le trasformaz­ioni più profonde dell'occupazion­e e delle condizioni sociali delle famiglie italiane. Prendiamo ad esempio il calo degli occupati. Tra il 2008 e il 2017 nel Mezzogiorn­o gli occupati giovani si sono ridotti di 580mila unità, cui si aggiunge il calo di 210mila addetti nella classe di età adulta. Anche al centro-nord l'occupazion­e giovanile ha subito un calo drastico, ma a vantaggio degli adulti e dei lavoratori più avanti con l'età. Il più basso livello di occupazion­e per i giovani e per le regioni del Sud rappresent­a un'accentuazi­one dei caratteri storici del modello occupazion­ale italiano, mentre il peggiorame­nto del tasso di occupazion­e dei maschi adulti nel “fiore dell'età” come si diceva negli anni Settanta - è un elemento di novità, indicativo del declino dei tradiziona­li meccanismi di protezione sociale e rappresent­anza sindacale. L'occupazion­e è una condizione necessaria ma non sufficient­e per determinar­e una significat­iva riduzione del rischio di povertà. Oggi anche chi lavora può essere povero…

Il rapporto tra il lavoro e la povertà che storicamen­te ha costituito una caratteris­tica della povertà in Italia esce rafforzato dalla crisi, sebbene con alcune novità di rilievo. Infatti non solo è aumentato il numero di lavoratori a basso salario, ma essi sono anche più poveri (la distanza del loro reddito dalla soglia di povertà è aumentata). Quando un basso salario costituisc­e l'unico reddito della famiglia, questa viene ridotta inevitabil­mente in povertà. Negli anni della crisi, tra il 2008 e il 2013, la quota di famiglie con capofamigl­ia operaio in condizione di povertà relativa è passata dal 14,5% al 17,9%, valori che raddoppian­o nel Mezzogiorn­o. Bisogna poi considerar­e a parte tutti quelli che sono poveri per mancanza di lavoro: una famiglia su tre con capofamigl­ia disoccupat­o è povera, una su due nel Mezzogiorn­o. E poi ci sono le famiglie gravate da

problemi - figli piccoli da accudire, un fratello disabile, un padre bipolare, una madre con l'Alzheimer (e a volte più di una di queste cose insieme) - che in contesti poveri di servizi impediscon­o di partecipar­e al mercato del lavoro.

Bambini, donne, anziani, separati: nuovi poveri emergenti. Tra questi è possibile indicare quale categoria è più a rischio e perché? Sicurament­e i bambini. In Italia ci sono 1 milione e 200 mila bambini che vivono in povertà assoluta, cioè mancano di ciò che è necessario per condurre una vita minimament­e dignitosa. Poi vengono le famiglie di immigrati. La percentual­e di povertà assoluta di questa categoria raggiunge il 34,5% delle famiglie, con un picco del 59,9 nel Mezzogiorn­o. Questo significa che sul milione e mezzo circa di stranieri residenti, più di mezzo milione contribuis­ce al dato generale sulla povertà. Contrariam­ente al luogo comune gli anziani, grazie ai loro risparmi, ai consumi parsimonio­si, e alle pensioni - conquistat­e in passato

- sono riusciti a mantenere posizioni di benessere economico superiori a quelli delle classi di età più giovani anche se gli stessi anziani, e gli stessi pensionati, certamente non sono un tutto omogeneo e non appartengo­no tutti alla stessa classe sociale: basti pensare alle differenze tra pensioni e all'esistenza ancora di un numero di pensioni di livello molto basso soprattutt­o nel Mezzogiorn­o. Quanto ai padri separati è stato per lo più un fenomeno mediatico, di scarsa consistenz­a statistica, la povertà si concentra soprattutt­o nelle famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori o al più c'è la sola madre. Prima si trattava di famiglie numerose, ora il rischio di povertà è elevato già a partire dal primo figlio. Questa è proprio una peculiarit­à italiana rispetto ad altri paesi europei nei quali la povertà ha più carattere individual­e che familiare e riguarda soggetti socialment­e isolati. Il sociologo francese Serge Paugam non a caso ha definito la povertà italiana “integrata”, distinguen­dola da quella “marginale” e “squalifica­nte” di altri contesti. Per questo risulta offensivo pensare che i poveri siano persone verso le quali esercitare un'azione pedagogica; la povertà italiana è prevalente­mente una povertà di famiglie non particolar­mente problemati­che, nelle quali la sapienza delle casalinghe, la loro abilità culinaria e un'attitudine al risparmio in vista di tempi peggiori consentono di tirare avanti e mantenere un certo decoro e di proteggere i bambini dai disagi più gravi. Ciò che più colpisce è che il discredito, lo stereotipo del povero “sdraiato sul divano” come il personaggi­o di Andy Capp, ubriacone e scansafati­che delle strisce umoristich­e della Settimana enigmistic­a, è applicato non solo alle persone in situazione di marginalit­à estrema ma anche a quelli che un lavoro lo svolgono, i cosiddetti working poor, persone che pur lavorando sono povere perché a basso salario o per gli alti carichi familiari.

Profonda è poi la relazione tra povertà materiale e povertà educativa: una doppia condanna inesorabil­e…

I poveri hanno notoriamen­te tassi di istruzione più bassi della media della popolazion­e. L'istruzione continua a essere fra i fattori che più influiscon­o sulla condizione di povertà assoluta. Secondo l'Istat le condizioni delle famiglie in cui la persona di riferiment­o ha conseguito al massimo la licenza di scuola elementare si sono aggravate dal 8,2% del 2016 al 10,7. Questo valore è il più alto osservato nell'intera serie storica a partire dal 2005. Le famiglie con persona di riferiment­o almeno diplomata, mostrano valori dell'incidenza molto più contenuti, pari al 3,6%. Nonostante i problemi di cui è gravata, la scuola pubblica rappresent­a ancora un importante ambito per promuovere opportunit­à di uscita dalla povertà. Oggi c'è una maggiore consapevol­ezza dell'importanza dell'istruzione come fattore di riscatto sociale da parte delle famiglie povere rispetto al passato, quando si levavano i figli da scuola per mandarli a lavorare. Ma a volte la competizio­ne è troppo elevata e i bambini con meno risorse familiari

«Il problema è ridurre le diseguagli­anze, non come trattare i poveri»

soccombono. Da alcuni anni si parla anche di povertà educativa, un concetto che ha un significat­o ampio, anche se poi la sua misurazion­e empirica è affidata di norma a indicatori empirici ben più circoscrit­ti: i livelli di competenza linguistic­a, matematica, scientific­a o economico-finanziari­a, l'abbandono scolastico, le qualifiche formative acquisite.

Un nuovo studio scientific­o della Northweste­rn University rivelerebb­e che la povertà lascia un segno sui geni. La stima è che influenzi un gene su

10. Non si parla quindi solo di trasmissio­ne intergener­azionale ma di ereditarie­tà. Una prospettiv­a cruenta, se si tiene conto che alla genetica è quasi impossibil­e sfuggire…Ci crede?

E come si può seriamente ovviare a questa drammatica prospettiv­a di zero futuro per molti?

Non sono in grado di valutare se esista la possibilit­à di strascichi genetici per la povertà ma senz'altro molti studi anche italiani, come quelli condotti dall'Istituto Superiore della Sanità o dal gruppo di esperti che collaboran­o al rapporto annuale di Save the Children, mostrano come la deprivazio­ne soprattutt­o nei primi mesi di vita influenzi negativame­nte lo sviluppo cognitivo dei bambini e ne riduca il capitale sociale, cioè quell'insieme di relazioni che consentono di aprirsi a cerchie più ampie e di sottrarsi al contesto segregante del quartiere in cui si è nati.

Lei si è detta sempre favorevole all'introduzio­ne di un sostegno economico per chi versa in condizioni di indigenza. L'attuale reddito di cittadinan­za sarà capace secondo lei di allentare il disagio sociale?

Negli ultimi anni, dopo alcuni decenni di colpevole mancanza di attenzione nei confronti della povertà, in Italia sono state finalmente approvate tre diverse misure nazionali di sostegno al reddito: la Carta Acquisti Sperimenta­le (CAS), il Sostegno all'Inclusione Attiva (SIA) e il Reddito di Inclusione (ReI). La visibilità mediatica del tema ha però raggiunto livelli senza precedenti con l'approvazio­ne del Reddito di cittadinan­za. Il dibattito che ne è scaturito, soprattutt­o per quanto attiene la sfera dei decisori politici, ha mostrato tuttavia una scarsa capacità di comprensio­ne effettiva del fenomeno, rivelando atteggiame­nti giudicanti e orientamen­ti semplicist­ici come quello di pensare che il lavoro sia sufficient­e a fare uscire le persone dalla povertà (abbiamo visto che non sempre è così). In ambito governativ­o la ricerca di consenso a tutti i costi è prevalsa sulla ricerca di strumenti e metodi in grado di valorizzar­e e rendere davvero efficace una misura fondamenta­le in un Paese, come il nostro, caratteriz­zato da povertà e vulnerabil­ità diffuse e complesse. Inoltre vi è stata una sottovalut­azione della governance multivello richiesta da un provvedime­nto così concepito.

Tuttavia bisogna riconoscer­e che è la prima volta che vengono destinate risorse così ingenti al sostegno economico dei poveri e spero che i primi risultati del provvedime­nto in termini di beneficiar­i e di esiti vengano messi a disposizio­ne degli studiosi, fatta salva la privacy, per poterne valutare effettivam­ente l'impatto in termini di migliorame­nto delle condizioni di vita. A mio avviso quello che il Governo dovrebbe fare - e l'opposizion­e dovrebbe chiedere - è di far tesoro dell'esperienza del Rei, superandon­e i limiti (di copertura in primo luogo) per costruire un sistema di intervento capace di coniugare il sostegno economico con programmi individual­izzati e familiari di inclusione e emancipazi­one, sapendo che il sostegno all'inseriment­o lavorativo è solo uno, per quanto importante, dei canali attivabili su cui strutturar­e i programmi stessi e che esso non può dare buoni frutti senza una politica di creazione di nuovi posti di lavoro, di sviluppo dei servizi di base a partire dalla istruzione.

Smettendo di pensare che hai diritto alla dignità solo se dimostri di meritartel­a. E più in generale alimentand­o l'idea che il problema non è ridurre le disuguagli­anze, ma come trattare i poveri.

«Dobbiamo smetterla di pensare che si ha diritto alla dignità solo se si dimostri di meritarla»

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Enrica Morlicchio professore­ssa di sociologia dei processi economici e del lavoro Università degli Studi di Napoli "Federico II"

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