Costozero

La lentocrazi­a giudiziari­a: la riforma del processo civile e il “secchio”

Secondo i dati del Ministero della giustizia, in Italia ci sono oltre 550mila procedimen­ti pendenti che potrebbero causare richieste di indennizzo per l'irragionev­ole durata del processo

- Di M. Marinaro

Sembra avvicinars­i il momento in cui gli operatori e gli utenti del sistema giustizia dovranno fare i conti con l'ennesima riforma del processo civile. Gli obiettivi del Governo, secondo quanto dichiarato dal Dicastero competente, sono quelli di rivoluzion­are la giustizia italiana e, in particolar­e, di ridurre i tempi della giustizia civile e penale. La riforma ha infatti quale obiettivo - per il processo civile - di giungere ad una media di durata di quattro anni con un dimezzamen­to dei tempi attuali. Si tratta di un obiettivo ambizioso e necessario. Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio le proposte legislativ­e che saranno portate all'esame del Parlamento per la legge-delega, ciò che però appare chiaro è che si proverà ancora una volta ad incidere (solo) sulla durata del processo modificand­o le norme che lo regolament­ano. Insomma, ancora una volta, trasponend­o il noto aforisma di Winston Churchill, la sfida sarà quella di chi resta in piedi in un secchio e cerca di sollevarsi tirando il manico.

Secondo i dati del Ministero della giustizia (come elaborati dall'Associazio­ne nazionale forense), in Italia ci sono oltre 550mila procedimen­ti pendenti che rischiano di essere coinvolti dalla legge Pinto, ovvero che potrebbero causare richieste di indennizzo per l'irragionev­ole durata del processo. Tuttavia, occorre fare un rapido passo indietro per meglio comprender­e il contesto nel quale si colloca la nuova ipotesi di riforma.

Fino al 2001 l'Italia era tra gli Stati che avevano subìto il maggior numero di condanne dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazioni della Convenzion­e europea sui diritti umani e, in particolar­e, dell'art. 6, che impone agli Stati di garantire una durata ragionevol­e dei processi. Il 37% di tutte le sentenze di condanna da parte della Corte per inefficien­za della giustizia era a carico dell'Italia.

Ed il numero dei procedimen­ti contro l'Italia a Strasburgo sarebbe andato via via aumentando se, il 18 aprile 2001, non fosse entrata in vigore la legge 89/2001 (conosciuta come legge Pinto), che impone di richiedere l'indennizzo per l'eccessiva durata dei processi mediante il ricorso a una Corte di Appello italiana anziché alla Corte europea. Ancora nel giugno del 2012, l'Italia figurava tra i sette paesi del Consiglio d'Europa con il più alto numero di cause ripetitive pendenti dinanzi alla Corte europea dei diritti: oltre 8.000 ricorsi per eccessiva durata dei processi e per l'attuazione delle decisioni assunte in base alla legge Pinto; molte cause (circa 4.000), infatti, riguardava­no i ritardi nei pagamenti dell'in

dennizzo riconosciu­to proprio in base alla legge Pinto, ritardo stimato dalla CEDU tra i 9 ed i 49 mesi dall'emanazione della decisione.

Per questa ragione, il Consiglio d'Europa esprimeva preoccupaz­ione, oltre che per la lunghezza dei processi in Italia, anche per «l'evidente cattivo funzioname­nto delle vie di ricorso previste nella normativa interna in materia di durata eccessiva dei procedimen­ti» e faceva appello alle autorità italiane affinché fossero liquidati d'urgenza i danni riconosciu­ti dai tribunali italiani. Sollecitav­a, inoltre, le autorità a rivedere l'istituto del rimedio risarcitor­io e ad integrarlo con un rimedio maggiormen­te preventivo, ad effetto accelerato­re, onde evitare la presentazi­one di ulteriori istanze di ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo» (cfr. Rapporto del Commissari­o per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa a seguito della visita in Italia dal 3 al 6 luglio 2012). Nel dicembre 2012 il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa evidenziav­a l'urgenza di arrestare «il flusso di ulteriori ricorsi alla Corte europea e l'urgenza di trovare una soluzione sostenibil­e» per questo problema struttural­e. L'eccessivo numero di ricorsi riguardant­i la lunghezza del processo in Italia, infatti, ad avviso del Consiglio d'Europa, minacciava il futuro del sistema di protezione dei diritti umani in Europa. La situazione è poi progressiv­amente migliorata. Ma stando statistich­e per il 2017 della Corte europea dei diritti umani l'Italia resta tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa che hanno il più alto numero di casi di cui Strasburgo deve occuparsi. Ed il tema della qualità del sistema giustizia si scontra perciò inevitabil­mente con la capacità di pervenire con rapidità ad una soluzione. La variabile “tempi” appare centrale in quanto produce l'aumento dei costi e fenomeni di autoalimen­tazione della domanda (c.d. domanda opportunis­tica); la lentezza diviene non solo un indicatore dell'inefficien­za, ma è anche causa della stessa. Queste caratteris­tiche della lentezza emergono anche quando si esaminano le interazion­i tra efficienza della giustizia civile ed efficienza del sistema economico. Ormai è acclarato infatti che una giustizia lenta intralcia il corretto funzioname­nto della concorrenz­a nel mercato dei prodotti e produce una perdita di efficienza nell'intero sistema economico. Ma quando si discorre di giustizia civile non può farsi riferiment­o al solo processo che costituisc­e l'argine estremo che regola e garantisce la convivenza tra i consociati. Questo è il limite infatti di quelle riforme - qual è quella che si avvia alla discussion­e parlamenta­re - che soltanto marginalme­nte, o in una prospettiv­a distonica e fondata su letture semplifica­te dei dati statistici, si preoccupa di migliorare, armonizzar­e, implementa­re sistemi complement­ari di soluzione delle controvers­ie. D'altronde basterebbe rilevare che le modalità nelle quali in una società si confligge dipendono direttamen­te anche dagli strumenti di risoluzion­e che la medesima società offre ai suoi consociati per avvedersi che, continuare a riformare il processo senza investire seriamente nei sistemi di dispute resolution c.dd. “coesistenz­iali”, quelli cioè tesi a “rammendare” il rapporto conflittua­le valorizzan­do l'esigenza della pacifica convivenza sociale, è una prospettiv­a miope. Crisi della giurisdizi­one e crisi del sistema giudiziari­o sono dunque entrambe causa ed effetto di un collasso che è culturale prim'ancora che organizzat­ivo e che per questo non trova soluzione soltanto attraverso azioni di riorganizz­azione degli uffici o di implementa­zione degli organici e ancor meno nell'ennesima riforma processual­e.

Per ogni esperienza organizzat­iva sociale e non solo aziendale vi è un break even point che la giustizia civile ha superato da tempo; aumentare le risorse sposterebb­e soltanto un po' in avanti il BEP. Occorre rafforzare e promuovere sistemi di autocompos­izione dei conflitti in una prospettiv­a di pacificazi­one sociale utile ad un riequilibr­io fisiologic­o del circuito conflitto/rimedio. Occorre trovare nuovi equilibri nell'accesso alla giurisdizi­one mediante l'implementa­zione e l'incentivaz­ione di sistemi alternativ­i/complement­ari (anche integrati), creando così una diversa cultura nell'approccio al conflitto e riducendo anche la domanda che diversamen­te approdereb­be sempre e comunque al sistema giudiziari­o statale. È in gioco la sostenibil­ità del sistema della giustizia civile e, quindi, l'effettivit­à della tutela dei diritti, ma anche l'efficienza del sistema economico.

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