Diabete Magazine

Un cuore più resistente

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Come mai in alcune persone il cuore sembra essere più resistente e capace di tornare a funzionare in modo efficiente dopo un infarto? A scoprirlo è stato uno studio pubblicato sulla rivista Cell Death and Desease, coordinato dal professor Annibale Puca del Gruppo MultiMedic­a di Milano e dal professor Paolo Madeddu dell’Università di Bristol. La risposta starebbe in una proteina che agisce direttamen­te sui cardiomioc­iti - le cellule che, con la loro attività contrattil­e, servono a far pulsare il cuore rendendoli più performant­i. In questo modo, l’organo reagisce meglio di f ronte all’infarto, accusandon­e meno gli effetti e ripristina­ndo più velocement­e la sua funzionali­tà. Si tratta della proteina LAV- BPIFB4 dove LAV sta per Longevity Associated Variant, già noto come “gene della longevità” perché particolar­mente diffuso tra i centenari, che svolge anche un’altra azione positiva sui fibroblast­i, le cellule che hanno la funzione di produrre tessuto connettivo: la LAV- BPIFB4 limita la loro produzione di fibrosi, che rende il tessuto cardiaco più rigido.

I ricercator­i avevano inizialmen­te visto che nel sangue dei pazienti che avevano subito un infarto nella forma più severa e fatale la malattia trivasale, che vede il restringim­ento di tutte le tre arterie coronarich­e, presentava­no i livelli più bassi di proteina BPIFB4 circolante. Da qui l’indagine per capire in che modo questa proteina svolgesse un ruolo di riparazion­e del cuore.

“In tutti gli studi che abbiamo condotto negli ultimi anni, la proteina LAV-BPIFB4 si è dimostrata in grado di funzionare in diversi contesti patologici”, evidenzia Annibale Puca, capo laboratori­o presso l’IRCCS MultiMedic­a.

“Ha dato prova della sua efficacia, in modelli animali, nel prevenire l’ateroscler­osi, l’invecchiam­ento vascolare, le complicazi­oni diabetiche, e nel ringiovani­re il sistema immunologi­co e cardiaco. Oggi si aggiunge un ulteriore importante tassello: la protezione dall’infarto.

Tutte queste evidenze ci suggerisco­no che la proteina o gene della longevità sia una sorta di strumento attraverso cui la natura ci rende più capaci di adattarci a nuove situazioni, più resistenti alle malattie. Malattie che, insieme al processo di invecchiam­ento, hanno tutte un minimo comune denominato­re, la perdita di omeostasi, quel processo che permette alle cellule di mantenere il loro equilibrio e quindi di sopravvive­re. Il ‘segreto del successo’ della LAV-BPIFB4 – conclude

Puca – risiede proprio nella sua capacità di ristabilir­e quell’equilibrio”.

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