Al suo ventesimo compleanno La7 sempra pronta per un nuovo salto
Tmc1 (ex Telemontecarlo) e Tmc2 (ex Videomusic), che oggi hanno il nome di LA7 e LA7d, erano fino al 2000 le foglie di fico del duopolio Rai-Mediaset. Erano passate di mano in mano da Rede Globo, a Montedison fino a Cecchi Gori, in mezzo a cronici deficit di cassa. D’improvviso, ad agosto del 2000, approdano nel porto della Telecom recentemente conquistata da Roberto Colaninno e soci, detti i capitani coraggiosi. Sembrava giunto il momento del tanto vagheggiato terzo polo, capace di punzecchiare l’impero di Silvio Berlusconi.
Ma nella realtà era scontato che Berlusconi, a primavera 2001, avrebbe stravinto le elezioni. Dunque, altro che sfidarlo, avere quella tv era utile ai suddetti “Coraggiosi” per concordare, proprio col padrone di Mediaset e capo del governo, la ritirata da Telecom, ormai spolpata e indebitata oltre misura.
La7 di Tronchetti Provera
Ecco perché, proprio mentre il centrodestra dava vita al suo governo, la nuova Tv, rinominata La7, si preannunciava con iniziative d’occasione e la promessa di partire dal 24 giugno 2001 da un palinsesto formidabile con Fabio Fazio, Giuliano Ferrara, Gad Lerner e altre produzioni capaci di attirare spot e telepromozioni e di schiodarla dal due per cento di share (secondo i dati d’ascolto elaborati da Studio Frasi, Milano).
Ma giusto alla vigilia dell’esordio, Telecom passò, com’era scontato, in nuove mani. Quelle, scelte da Berlusconi, di Marco Tronchetti Provera che, con l’occhio al debito di Telecom, bloccò Fazio mentre stava entrando in studio, rinunciò alla sfida dell’intrattenimento informativo e consentì al resto della truppa di acconciarsi in una tv destinata come in precedenza a restare marginale e finanziata a debito, in funzione dei più vasti interessi del padrone di passaggio. Entro questi drammatici limiti strutturali la proprietà Tronchetti Provera perseguì tuttavia una qualche idea di “rete bella” in cui Lerner inscenava L’Infedele, Ferrara concionava da par suo, Maurizio Crozza cresceva e s’imponeva, Piero Chiambretti faceva le Markette, Marco Paolini creava con i suoi monologhi gli eventi. Solo Daniele Luttazzi si rivelò incompatibile con la “giusta misura” che si pretende in una tv comunque del padrone. Qualche soddisfazione l’auditel la dette sollevando l’ascolto giornaliero dal 2 per cento scarso a quasi il 3 per cento. Un dato d’affezione, ma ininfluente negli affari sul mercato.
La7 di Bernabè
Intanto, e arriviamo a fine 2007, anno dopo anno il debito di Telecom andava sempre peggiorando sicché gli azionisti chiamarono Franco Bernabè a rimediare ai guai e a creare lo sviluppo. Fra i tanti problemi c’era anche quello di La7 e Bernabè fece due mosse: la prima, pressoché scontata, di affidarla a un fido tagliatore di costi e teste, con la priorità di domare il deficit annuale; la seconda di favorire, alla prima occasione, l’accordo con Enrico Mentana, ormai a disagio in Mediaset, per dargli pieni poteri sul Tg ricollocato alle ore 20, in prima linea.
Quel Tg, a ottobre del 2010, passò rapidamente dal quasi niente allo share composto di due cifre. Merito del direttore-narratore (che oltretutto conduceva in piedi e non come un qualunque mezzo busto) ma anche effetto della crisi finanziaria, scatenata nel 2008 da Lehman Brothers e compagnia bancaria, che aveva sconvolto le prospettive di masse vastissime di spettatori a cui i vecchi notiziari ormai parevano melensi. La parte più “nervosa” del paese volse così lo sguardo al TG7 e scoprì con l’occasione anche il resto che da tempo esisteva, ma al quale, fosse bello o brutto, tanti non avevano fatto caso fino allora. Otto e mezzo di Lilli Gruber triplicò gli ascolti, Exit di Ilaria D’Amico aprì la strada al più perentorio Piazza Pulita di Corrado Formigli, arrivò Michele Santoro con Servizio pubblico a dare un taglio epico alla corrente indignazione, prese corpo L’Aria che tira di Myrta Merlino in una sarabanda di caccia all’illustre e ben pagato pensionato, all’esodato sfortunato, all’assessore malandrino. Su La7, in sostanza, s’alzò con la chiacchiera anti casta anche l’ondata della marea grillina dei due parlamenti successivi. A beneficiarne innanzitutto fu il prime time in cui La7 giunse finalmente ad equiparare i dati delle reti del duopolio, lasciando a parte, va da sé, le due ammiraglie Rai1 e Canale5.
Un successone figlio del talento e della storia, per la Telecom proprietaria del gioiello. Ma un successo sterile sul piano dei quattrini perché una mono rete ha voglia a fare ascolti se a vendere gli spot deve confrontarsi con la concorrenza delle tre reti e passa di Publitalia. In più, al tagliatore di costi e teste messo a capo della rete era venuto a mancare il cuore per procedere. Forse, perfino, dello spreco creativo s’era un tantino innamorato e preferiva farsene direttore. In tal modo le zavorre storiche e strutturali restavano intatte senza che il mercato le lenisse in alcun modo. Da qui, supponiamo, il ricorso disperato al “pochi, maledetti e sùbito” del contratto di minimo garantito alla Cairo Pubblicità che in esclusiva vendeva agli inserzionisti gli spazi della rete. Qui Urbano Cairo, noto fino a prima solo come proprietario del Torino, mostrò di conoscere i suoi polli. Gli garantiva un minimo di soldi, ma non mancava di riscuoterne parecchi grazie a un aggio di servizio elevatissimo; e soprattutto era pronto a prendersi la tv nel momento in cui Telecom avesse deciso di disfarsene.
La7 di Cairo
Tutto puntualmente avvenne nel 2013: Telecom si risolse a vendere La7 quando nessuno l’avrebbe mai comprata se non Cairo stesso, a causa dell’oneroso vincolo precostituito dall’esclusiva con la Cairo Pubblicità. Forte di tutti i vantaggi del monopsonio (quando chi vende può rivolgersi soltanto a un preciso acquirente) Cairo ottenne che Telecom ripulisse La7 di tutto quello che non era strettamente necessario (per ereditare un bilancio alleggerito quanto a costi) e in più si vide riconosciuta una dote premio di una novantina (più o meno) di milioni volta a rassicurare Telecom contro un eventuale riaffacciarsi di La7 sotto forma di contenzioso con giornalisti, impiegati, tecnici e fornitori. Cairo, astuto e paziente, comprò due tv senza sborsare un euro, e invece incamerandone moltissimi, forieri delle successive e strategiche avventure nel mondo del Corriere della Sera.
Per qualche anno Cairo ha diretto
La7 minuto per minuto e fattura per fattura, riuscendo a farla esistere sul filo del gas strettamente necessario. Licenziamenti zero (la dote ottenuta da Telecom gli impediva comunque di ricorrervi) ma molti corpi accantonati a girarsi i pollici (perché chi sta inattivo evita di spendere); mano rude con i fornitori (che se l’accettano vuol dire che ci guadagnano lo stesso); massima puntualità con i bonifici ai volti patrimonio della rete; tentativi di innesti di volti e programmi nuovi rispetto a quelli ereditati con esiti alterni che tuttavia alla fine hanno messo in linea Diego Banchi, Giovanni Floris e Massimo Giletti colmando i vuoti lasciati da Crozza e da Santoro. Ad oggi la rete è ancora un’incompiuta perché manca di due/tre serate di prime time, di una striscia alle costole del Tg delle 20, di un programma per il pomeriggio domenicale. Quanto a ricavi pubblicitari è tuttora compressa dal sistema del Biscione, ma ne condivide l’amaro per la concorrenza delle piattaforme social.
Il terzo polo La rete è ancora un’incompiuta perché manca di due/tre serate di prime time
Nuovo cambiamento?
A naso ci pare che stia maturando il tempo di un nuovo cambiamento che, se seguisse le logiche più attuali del mercato, guarderebbe ai soggetti internazionali europei o (perché no?) ai titani americani (Disney-Fox, Warner-Discovery, Netflix, Amazon) che stanno affondando radici produttive e distributive nelle singole nazioni. È la tendenza alla “verticalizzazione decentrata” che si ripropone periodicamente alle industrie audiovisive, fin dal sorgere di Hollywood. Salvo che stavolta riguarda tutto il mondo. E non è detto che si risolva in male e che non arrivi a dare un senso più robusto alle realtà soffocate nelle beghe e nelle trame entro le singole nazioni.