I compromessi fragili di Yalta e la (mancata) spartizione dell’Europa
Una recente immagine della Conferenza di Yalta ritrae i tre protagonisti, grazie a un fotomontaggio, collocati su una scacchiera. Sembrano lontani e avvicinarsi l’un l’altro con prudenza, presentandosi con le proprie, spesso opposte, idee e personalità. Sono ritratti, sebbene approssimativi, che ben rappresentano le diverse caratteristiche che la Conferenza di Yalta assunse nella storia della Seconda guerra mondiale e del mondo che ne scaturì. Le nazioni guidate dai tre protagonisti venivano da itinerari diversi. Il Regno Unito era il senior member di un’alleanza anti-Asse che, per circa un anno, l’aveva visto combattere, praticamente da solo, contro il moloch nazifascista. Il suo capo, Winston Churchill, politico di lunghissimo corso, era stato il “profeta” dell’intervento contro la Germania. Era stato chiamato alla guida del paese nella darkest hour e l’aveva portato alla vittoria. L’Unione Sovietica, invece, era considerata una pericolosa opportunista. Stalin, il suo inquietante leader le aveva fatto cambiare tre volte il suo principale indirizzo di politica europea. Prima nemico politico-ideologico del nazismo, poi amico, sodale e quasi alleato e, infine, anche a causa dell’aggressione di Hitler, di nuovo suo irriducibile avversario. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra più tardi di tutti, ma in breve tempo, grazie all’immensità delle loro risorse, erano divenuti effettivamente la guida dell’alleanza.
Garanti della pace
Yalta non fu il primo incontro tra i leader che combattevano la decrescente potenza dell’Asse. Ma la Conferenza fu senz’altro un punto d’arrivo. Si trovava quasi al termine del lungo e sanguinoso itinerario di un conflitto senza precedenti. I tre erano chiamati a disegnare i contorni politici del mondo che sarebbe uscito da questa immane tragedia. E si sarebbero dovuti presentare come i garanti di un’era di almeno «cinquant’anni di pace». Sul tavolo della Conferenza furono rovesciate aspirazioni e storia delle potenze guidate da quei leader.
L’Urss voleva uscire dalla condizione di pària della
Comunità internazionale attraverso la costruzione di un sistema di sicurezza che l’avrebbe garantita da attacchi ed emarginazione politica; gli Stati Uniti lasciare un’impronta definitiva della sua storia politica sul sistema internazionale con una rivoluzione multilateralista che avrebbe creato un nuovo scenario mondiale; la Gran Bretagna voleva rimanere un impero perché vittoriosa, a dispetto non solo della realtà politica, ma anche di quella, assai più ultimativa, del drastico ridimensionamento della sua economia.
I protagonisti
I tre giocarono la loro partita puntando su cavalli diversi. Roosevelt, nonostante le sue condizioni di salute, su quello del futuro. La nuova grande organizzazione internazionale, il metodo democratico, la propensione capitalistica al benessere avrebbero potuto impedire, perlomeno sul lungo periodo, la formazione di quelle sfere di influenza che assomigliavano così tanto alla politica di potenza del passato. Gli Stati Uniti avrebbero potuto essere un modello; e un aiuto, per quelle nazioni che intendevano ricostruirsi una volta uscite dall’incubo della dominazione tedesco-giapponese. Stalin, non c’è dubbio, puntò sul presente. Una realtà costituita da una splendida vittoria militare, assolutamente decisiva per le sorti del conflitto, che sarebbe divenuta il mito rifondante della nuova grande superpotenza mondiale. Questo gli dava il diritto di costituire un sistema di sicurezza, acquisire compensi e affermarsi come l’alternativa ideologica al mondo rappresentato dagli altri due vincitori. Churchill, inevitabilmente, dovette puntare sul passato, ovvero sulla tradizione e sull’esperienza. Il declino della Gran Bretagna era evidente, ma i meriti acquisiti nella guerra, e la tenacia, l’avevano resa parte integrante di un equilibrio mondiale che, altrimenti, avrebbe fatto a meno di lei.
Ciascuno seguì la traiettoria dei propri interessi soprattutto attraverso lo strumento del compromesso. I tre protagonisti si mossero come durante una partita di scacchi fatta di rapide incursioni nel campo avverso per ottenere risultati immediati e tattiche attendiste nella speranza che un errore di un altro giocatore spianasse la strada alla vittoria. Fu un negoziato, dunque, dove ciascuno riuscì a portare a casa qualcosa e fu costretto a rinunciare a qualcos’altro. Roosevelt credette di avere creato lo strumento per la svolta della politica mondiale: la nuova organizzazione internazionale con un pool di potenze che, in maniera trasparente, avrebbe co-gestito la pace. Fu un’illusione? Forse, quantomeno a partire dagli effettivi risultati che conseguì. Ma è anche vero che Roosevelt contava molto sull’attrattività del modello americano; della sua capacità materiale di partecipare alla ricostruzione del Vecchio Continente dove avrebbe potuto esercitare la sua influenza democratica superando anche la barriera militar-ideologica che Stalin stava creando nella parte orientale. Un ostacolo, questo, le cui proporzioni, al momento di Yalta, non erano ancora ben chiare e si credevano, se non superabili, senz’altro influenzabili con effetti di lungo periodo. La colpevolizzazione di Roosevelt per le sue responsabilità nello scoppio della Guerra fredda non tiene conto della realtà che il presidente stava sperimentando. Nel febbraio del 1945 c’era ancora l’occupazione della Germania da completare, la guerra con il Giappone da vincere, un equilibrio mondiale da mettere in piedi, un paio di continenti da ricostruire. Tutto ciò sembrava impossibile senza il contributo fattivo dell’Urss. Roosevelt voleva trasformare il vincolo che si era creato nel corso del conflitto in una politica di cooperazione stabile all’interno di un quadro multilaterale e, per quanto possibile, democratico.
I compromessi fragili
Stalin non rifiutò questa prospettiva. Intese condizionarla. Il “nuovo ordine” non avrebbe dovuto mettere in discussione il consolidamento della potenza sovietica, la quasi totale riconquista dei confini zaristi, l’esercizio della propria influenza politico-ideologica sui piccoli Stati europei vicini. Dal nuovo contesto avrebbe avuto qualcosa da guadagnare anche lui. Innanzitutto il contributo americano alla ricostruzione dell’Urss. La rottura postbellica lasciò, invece, Stalin solo a cercare risorse nella spremitura della zona orientale della Germania e dei paesi occupati i quali, in realtà, avevano ben poco da dare. Ma la maggiore convenienza sarebbe stata di ordine politico: nel mondo delle Nazioni Unite sarebbe scomparso il cauchemar des coalitions, prodotto di quella sindrome da accerchiamento che aveva dominato la storia dell’Urss e che aveva segnato così in profondità la cultura politica internazionale della classe dirigente sovietica. La “vittoria” di Stalin fu nel riuscire a entrare in un nuovo mondo lasciando l’Urss uguale a sé stessa. Non sappiamo se l’errore di Roosevelt sia stato quello di ritenere che, prima o poi, l’Unione Sovietica sarebbe ritornata all’economia di mercato. Sicuramente fu quello di sopravvalutare l’attrattività del nuovo sistema internazionale “democratico” tanto da ritenere possibile l’integrazione nel suo seno di una tetragona potenza totalitaria che non voleva rinunciare a una politica rigidamente unilaterale. Ma, come abbiamo detto, puntava sul cavallo del futuro con il quale sperava di superare gli ostacoli del presente e arrivare, in un tempo di pace, a poter esercitare l’influenza americana su tutto lo scenario mondiale. I fragili compromessi di Yalta avrebbero dovuto essere rafforzati da una politica di cooperazione tra i vincitori e invece furono violati. Dunque fallì il disegno di un nuovo ordine mondiale. Così il « world of peace », di cui Roosevelt parlò al Congresso il 1° marzo 1945, divenne Guerra fredda.
Luca Riccardi è autore di Yalta. I tre Grandi e la costruzione di un nuovo sistema internazionale, edito da Rubettino