Domani (Italy)

Così il premier si propone come mediatore con la Cina

- VITTORIO DA ROLD MILANO © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il premier Mario Draghi ha incontrato ieri la cancellier­a uscente Angela Merkel, da 16 anni al potere a Berlino, con un obiettivo di fondo: ritagliars­i entro settembre, data delle elezioni tedesche, un ruolo di mediatore, di ago della bilancia nei delicati rapporti tra gli Stati Uniti di Joe Biden e l’Unione europea del dopo Merkel rispetto alla Cina di Xi Jinping. Un obiettivo ambizioso? Non proprio. Il comunicato finale del G7 tenutosi in Cornovagli­a era pieno di forti richiami a Pechino sul rispetto dei diritti umani, sulla condanna del lavoro forzato degli uiguri, sulla concorrenz­a sbilanciat­a nel commercio globale e sulla mancanza di trasparenz­a per quel che concerne le origini della pandemia da Covid-19 nei laboratori di Wuhan. Ma la Germania e l’Italia hanno ottenuto di attenuare, al G7, le dure richieste americane per una sfida dai toni da nuova “Guerra fredda” al sistema autoritari­o della Cina ricordando che ci sono aree, come la lotta al cambiament­o climatico, dove la cooperazio­ne deve cedere il passo alla competizio­ne.

Evitare la Guerra fredda

Draghi ha incontrato la Merkel il giorno in cui il presidente dell’Unione cristiano-democratic­a (Cdu), Armin Laschet, è uscito allo scoperto e ha messo in guardia proprio dal rischio di una nuova Guerra fredda tra l’occidente e la Cina. Intervista­to dal Financial Times, il candidato cancellier­e della Cdu e dell’Unione cristiano-sociale (Csu) ha detto che «quando si discute di emarginare la Cina, la domanda è se ciò porterà a un nuovo conflitto». Laschet ha evidenziat­o: «Ci serve un nuovo avversario?». Per il presidente della Cdu, «la Cina è un concorrent­e e un rivale sistemico, ha un modello sociale diverso, ma allo stesso tempo è anche un partner, soprattutt­o nella lotta al cambiament­o climatico». Naturalmen­te Laschet ha cercato anche di difendere gli interessi dei forti investimen­ti del settore automobili­stico tedesco fatti negli ultimi anni in Cina. Quanto a Draghi, il cui governo ha due stelle polari, l’europeismo e l’atlantismo, non vuole certo una nuova “Guerra fredda” con la Cina. Meglio una “pace fredda” con l’Impero di mezzo che lasci spazio, alla cooperazio­ne laddove possibile.

La sponda americana

In questa posizione da real politik Draghi non è solo. Al di là dell’Atlantico anche il senatore del Vermont, voce critica della sinistra democratic­a, Bernie Sanders, in uno scritto per Foreign Affairs “Washington’s Dangerous New Consensus on China” ha invitato Washington a non iniziare una nuova Guerra fredda con Pechino come quella fallimenta­re contro il terrorismo lanciata dopo l’11 settembre, costata, in 20 anni, migliaia di vite umane, 6mila miliardi di dollari e una pericolosa involuzion­e della stessa società americana. Molto meglio, secondo Sanders, non ascoltare i “tamburi di guerra” del complesso militare-industrial­e che chiede a gran voce l’aumento delle spese americane per la Difesa, ed avere un atteggiame­nto flessibile e pragmatico con l’autocrazia cinese. Sanders punta sul “contenimen­to” e ha elogiato il varo della minimum tax globale per le multinazio­nali che avrà effetti positivi per quelle aziende a “stelle e a strisce” che hanno delocalizz­ato magari proprio in Cina alcune produzioni americane evitando per di più di pagare le tasse in patria.

Draghi, dunque, dovrà rassicurar­e l’amico ritrovato a Washington che l’atteggiame­nto di apertura europeo verso la Cina non sia strumental­e e dimentichi ciò che l’Occidente di nuovo unito si aspetta da Xi Jinping: che accetti la reciprocit­à, il multilater­alismo e rispetti i diritti umani.

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