L’obbligo della frutta perfetta uccide l’agricoltura italiana
Il cambiamento climatico rende sempre più difficile per gli agricoltori produrre frutta conforme a certi canoni estetici In natura esistono i difetti, ma la grande distribuzione non li vuole mettere in mostra sui banconi dei supermercati Un rapporto dell’
agrumi di Sicilia agli autori del rapporto Siamo alla frutta – Queste importazioni dallo spazio extracomunitario andrebbero vietate per proteggere le nostre produzioni». Anche nella produzione di kiwi esiste il problema della scarsa capacità aggregativa del settore produttivo e della crescente competizione da parte di attori esteri. In particolare la produzione greca, che viene immessa sul mercato a prezzi più concorrenziali.
I kiwi greci vivono un vero e proprio boom: si registrano aumenti di superfici considerevoli e la produzione ha raggiunto le 285mila tonnellate nella campagna 2019-2020, non lontane dalle 370mila tonnellate italiane. Gli incrementi sono dell’ordine del 15-20 per cento l’anno: nel 2010 il paese produceva appena 89mila tonnellate di kiwi. Tre anni fa, la Grecia ha superato la Nuova Zelanda diventando il primo fornitore estero di questo frutto per l’Italia. Ma c’è una differenza: la concorrenza proveniente da altri paesi dell’emisfero sud, come Nuova Zelanda e Cile, è meno problematica, perché la produzione avviene in stagionalità inversa rispetto a quella nazionale. Quella ellenica invece si inserisce nella stessa finestra produttiva del kiwi italiano, con potenziali effetto dumping sui prezzi.
Non stare insieme
In un mercato dominato dalla grande distribuzione, che catalizza tre quarti dei nostri acquisti alimentari, è difficile per migliaia di produttori avere voce in capitolo sui prezzi e le forniture. L’atomizzazione del settore produttivo che caratterizza il nostro paese è quindi un vantaggio per le catene di supermercati.
Secondo Atos Bortolotto, presidente della cooperativa agricola PerArte che raduna produttori di pere nella provincia di Ferrara, «di fronte alla grande distribuzione organizzata, noi siamo la piccola produzione disorganizzata».
Al contrario del consorzio Melinda, che ha rafforzato il potere negoziale dei melicoltori trentini nei confronti dei supermercati, il consorzio Opera, che tiene insieme i pericoltori emiliani, non ha raggiunto la massa critica preventivata. Mentre i promotori puntavano a coinvolgere almeno il 50 per cento dei produttori, l’asticella si è fermata al 25 per cento, un numero insufficiente ad avere un peso reale nelle contrattazioni con la Gdo. Nonostante la forte tradizione cooperativistica della regione, Opera non ha raggiunto i risultati sperati anche a causa della differenza di dimensioni delle diverse realtà produttive e della loro varietà di obiettivi: molti infatti coltivano non solo pere, ma anche altri frutti, ragion per cui non trovano vantaggio nell’affidarsi a un consorzio per una sola delle proprie produzioni. La stessa incapacità aggregativa si riscontra nella filiera del kiwi nell’Agro Pontino, dove l’attribuzione del marchio Igp al kiwi di Latina non ha rappresentato un volano per la sua commercializzazione. La polverizzazione della produzione e l’estrema competizione tra produttori ha impedito il dispiegamento di un’efficace azione di marketing tesa a valorizzare il prodotto, che quindi oggi è poco conosciuto.
Oltre le buone pratiche
Il problema di trovare un mercato per la frutta “brutta ma buona” non è nato ieri. In tutto il mondo si trovano campagne di marketing, progetti sociali, applicazioni e start up antispreco che propongono soluzioni creative e innovative.
A volte si punta sulla redistribuzione a fasce di popolazione meno abbienti tramite canali alternativi alla Gdo, in altri casi gli stessi supermercati dedicano spazi appositi per l’ortofrutta “buffa”, ribassando il prezzo.
Tuttavia, il problema non solo resta irrisolto, ma con il cambiamento climatico è diventato strutturale. Una quota crescente delle produzioni ortofrutticole destinate al mercato del fresco non riesce più a rispettare gli standard che consentono l’accesso alle categorie predilette dai rivenditori, con ripercussioni drammatiche sulla vita degli agricoltori. Con il rapporto Siamo alla frutta Terra! quindi sollecita un intervento politico-legislativo capace di superare questa rigida classificazione, che non ha nulla a che fare con la reale qualità dei prodotti.
Una proposta che arriva proprio nel momento in cui la Commissione europea ha deciso di operare una generale revisione delle norme di commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. Potrebbe essere questa l’opportunità per mettere fine all’eccesso di regolamentazione che impedisce margini di manovra ai produttori, esposti alla crescente variabilità del clima.
Ma la politica nazionale potrebbe anche adoperarsi per incentivare i supermercati a vendere una quota maggiore di prodotti fuori calibro. Nulla vieta infatti di acquistare e rivendere prodotti meno identici fra loro ma uguali dal punto di vista del contenuto nutrizionale. La stessa grande distribuzione potrebbe cambiare le sue politiche di acquisto senza attendere l’intervento normativo e prendere un serio impegno per aiutare l’agricoltura in tempi di crisi climatica. Acquistando prodotti con lievi imperfezioni senza abbattere i prezzi, potrebbe tamponare la crisi economica del comparto e partecipare a una operazione culturale necessaria, per liberarci dall’idea che la natura produca solo frutti perfetti.