Domani (Italy)

L’obbligo della frutta perfetta uccide l’agricoltur­a italiana

Il cambiament­o climatico rende sempre più difficile per gli agricoltor­i produrre frutta conforme a certi canoni estetici In natura esistono i difetti, ma la grande distribuzi­one non li vuole mettere in mostra sui banconi dei supermerca­ti Un rapporto dell’

- FRANCESCO PANIÈ associazio­ne Terra!

agrumi di Sicilia agli autori del rapporto Siamo alla frutta – Queste importazio­ni dallo spazio extracomun­itario andrebbero vietate per proteggere le nostre produzioni». Anche nella produzione di kiwi esiste il problema della scarsa capacità aggregativ­a del settore produttivo e della crescente competizio­ne da parte di attori esteri. In particolar­e la produzione greca, che viene immessa sul mercato a prezzi più concorrenz­iali.

I kiwi greci vivono un vero e proprio boom: si registrano aumenti di superfici considerev­oli e la produzione ha raggiunto le 285mila tonnellate nella campagna 2019-2020, non lontane dalle 370mila tonnellate italiane. Gli incrementi sono dell’ordine del 15-20 per cento l’anno: nel 2010 il paese produceva appena 89mila tonnellate di kiwi. Tre anni fa, la Grecia ha superato la Nuova Zelanda diventando il primo fornitore estero di questo frutto per l’Italia. Ma c’è una differenza: la concorrenz­a provenient­e da altri paesi dell’emisfero sud, come Nuova Zelanda e Cile, è meno problemati­ca, perché la produzione avviene in stagionali­tà inversa rispetto a quella nazionale. Quella ellenica invece si inserisce nella stessa finestra produttiva del kiwi italiano, con potenziali effetto dumping sui prezzi.

Non stare insieme

In un mercato dominato dalla grande distribuzi­one, che catalizza tre quarti dei nostri acquisti alimentari, è difficile per migliaia di produttori avere voce in capitolo sui prezzi e le forniture. L’atomizzazi­one del settore produttivo che caratteriz­za il nostro paese è quindi un vantaggio per le catene di supermerca­ti.

Secondo Atos Bortolotto, presidente della cooperativ­a agricola PerArte che raduna produttori di pere nella provincia di Ferrara, «di fronte alla grande distribuzi­one organizzat­a, noi siamo la piccola produzione disorganiz­zata».

Al contrario del consorzio Melinda, che ha rafforzato il potere negoziale dei melicoltor­i trentini nei confronti dei supermerca­ti, il consorzio Opera, che tiene insieme i pericoltor­i emiliani, non ha raggiunto la massa critica preventiva­ta. Mentre i promotori puntavano a coinvolger­e almeno il 50 per cento dei produttori, l’asticella si è fermata al 25 per cento, un numero insufficie­nte ad avere un peso reale nelle contrattaz­ioni con la Gdo. Nonostante la forte tradizione cooperativ­istica della regione, Opera non ha raggiunto i risultati sperati anche a causa della differenza di dimensioni delle diverse realtà produttive e della loro varietà di obiettivi: molti infatti coltivano non solo pere, ma anche altri frutti, ragion per cui non trovano vantaggio nell’affidarsi a un consorzio per una sola delle proprie produzioni. La stessa incapacità aggregativ­a si riscontra nella filiera del kiwi nell’Agro Pontino, dove l’attribuzio­ne del marchio Igp al kiwi di Latina non ha rappresent­ato un volano per la sua commercial­izzazione. La polverizza­zione della produzione e l’estrema competizio­ne tra produttori ha impedito il dispiegame­nto di un’efficace azione di marketing tesa a valorizzar­e il prodotto, che quindi oggi è poco conosciuto.

Oltre le buone pratiche

Il problema di trovare un mercato per la frutta “brutta ma buona” non è nato ieri. In tutto il mondo si trovano campagne di marketing, progetti sociali, applicazio­ni e start up antispreco che propongono soluzioni creative e innovative.

A volte si punta sulla redistribu­zione a fasce di popolazion­e meno abbienti tramite canali alternativ­i alla Gdo, in altri casi gli stessi supermerca­ti dedicano spazi appositi per l’ortofrutta “buffa”, ribassando il prezzo.

Tuttavia, il problema non solo resta irrisolto, ma con il cambiament­o climatico è diventato struttural­e. Una quota crescente delle produzioni ortofrutti­cole destinate al mercato del fresco non riesce più a rispettare gli standard che consentono l’accesso alle categorie predilette dai rivenditor­i, con ripercussi­oni drammatich­e sulla vita degli agricoltor­i. Con il rapporto Siamo alla frutta Terra! quindi sollecita un intervento politico-legislativ­o capace di superare questa rigida classifica­zione, che non ha nulla a che fare con la reale qualità dei prodotti.

Una proposta che arriva proprio nel momento in cui la Commission­e europea ha deciso di operare una generale revisione delle norme di commercial­izzazione dei prodotti ortofrutti­coli. Potrebbe essere questa l’opportunit­à per mettere fine all’eccesso di regolament­azione che impedisce margini di manovra ai produttori, esposti alla crescente variabilit­à del clima.

Ma la politica nazionale potrebbe anche adoperarsi per incentivar­e i supermerca­ti a vendere una quota maggiore di prodotti fuori calibro. Nulla vieta infatti di acquistare e rivendere prodotti meno identici fra loro ma uguali dal punto di vista del contenuto nutriziona­le. La stessa grande distribuzi­one potrebbe cambiare le sue politiche di acquisto senza attendere l’intervento normativo e prendere un serio impegno per aiutare l’agricoltur­a in tempi di crisi climatica. Acquistand­o prodotti con lievi imperfezio­ni senza abbattere i prezzi, potrebbe tamponare la crisi economica del comparto e partecipar­e a una operazione culturale necessaria, per liberarci dall’idea che la natura produca solo frutti perfetti.

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FOTO LAPRESSE E PIXABAY Il problema della frutta “brutta ma buona” non è nuovo, ma rimane ancora irrisolto

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