Domani (Italy)

La sottile perversion­e di riversare sui giovani l’odio per il nostro lavoro

- FABRIZIO SINISI drammaturg­o © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ci siamo anche stavolta: titolari di bar, ristoranti e stabilimen­ti balneari che non riescono a trovare lavoratori stagionali. «C’è chi rifiuta anche 1.200 euro al mese!» gridano stracciand­osi le vesti. «È colpa dei sussidi!» urlano i ristorator­i milanesi. È un grido che non contiene tanto una difficoltà, quanto un moto d’indignazio­ne: c’è gente pigra, debosciata, fannullona che, colpevolme­nte, preferisce far niente piuttosto che sgobbare per nove ore di seguito, magari sotto il sole, per guadagnare un salario metà del quale, soprattutt­o nelle grandi città, verrà speso per pagare la stanza dove andare a dormire tra un turno e l’altro.

Cosa ci sia sotto questa indignazio­ne, è facile vederlo: il lavoro non è più un diritto, ma una concession­e; lo stipendio minimo non un atto dovuto, ma un dono; il giovane lavoratore non un detentore di diritti, ma un mendicante a cui si regala un’opportunit­à: e che, scandalosa­mente, la respinge. Disprezzar­e il lavoro, qualsiasi esso sia, è diventato un peccato imperdonab­ile: figuriamoc­i, poi, rifiutarlo. Di modo che il sussidio diventa non l’elemosina del disperato, ma il privilegio del pigro. Il lavoratore d’oggi, soprattutt­o quello giovane, lo si vuole allegro, dinamico, ma soprattutt­o riconoscen­te. Del resto, instillare la gratitudin­e per qualcosa che è anche meno del dovuto è un meccanismo tipico del nuovo capitalism­o: prima affamare lentamente e poi compensare, così che quel piccolo palliativo appaia come una grazia. È così che si addomestic­ano gli animali. L’alternativ­a alla gratitudin­e è la colpevoliz­zazione: allora poi non lamentarti se stai male – si dice al giovane che, spesso paralizzat­o dall’impotenza o dall’angoscia, “non ha un lavoro e non lo cerca”: la colpa è tua. È uno dei procedimen­ti tipici del nuovo capitalism­o: colpevoliz­zare il singolo per dinamiche che non dipendono da lui. Sei disoccupat­o, solo, infelice? È perché sei pigro, inconclude­nte, poco ambizioso. L’unico con cui devi prendertel­a sei tu.

Come sulle navi da crociera

La narrazione – questa sì, estremamen­te boomer – immagina ancora il giovane lavoratore stagionale come uno scanzonato ragazzo che serve pizze per pagarsi gli studi, un volenteros­o giovanotto che durante l’estate si fa le ossa per poi incamminar­si su una luminosa strada di successo, al culmine della quale ricorderà a figli e nipoti quanto è importante, se si vuole riuscire nella vita, non starsene mai con le mani in mano, ma “mettersi in gioco, sempre”. Non so quanti, tra quelli che oggi s’indignano, si accorgano di quanto il loro immaginari­o sia debitore al Berlusconi cantante sulle navi da crociera. È una visione di questo tipo, novecentes­ca ai limiti della macchietta, che rende le recenti affermazio­ni di Guido Barilla perdonabil­i solo sulla base di un difetto cognitivo, una cecità generazion­ale che impedisce di vedere cos’è oggi il mondo del lavoro. La privatizza­zione dei percorsi formativi tramite lo strumento del master a pagamento ha fatto sì che la platea dei giovani neolaureat­i sia molto polarizzat­a: da un lato benestanti ed eccellenze (ovvero chi può pagarsi un buon master o è tanto talentuoso da ottenere una borsa di studio); dall’altro un vasto e silenzioso purgatorio, un nuovo proletaria­to giovanile totalmente privo di percorsi di avviamento profession­ale e di qualsiasi rappresent­anza politica. Si capisce bene che, in un quadro del genere, tanto il lavoro stagionale quanto il sussidio non sono anticamere propedeuti­che o percorsi d’iniziazion­e: sono casomai, nella maggioranz­a dei casi, espedienti di sopravvive­nza.

E allora, se si tratta di sopravvive­re, senza alcun orizzonte di crescita e di trasformaz­ione, perché dovrebbe essere più ragionevol­e sopravvive­re lavorando piuttosto che non lavorando? Perché qualcuno dovrebbe fingere di desiderare qualcosa che non desidera? Non è una perversion­e sadica quella di pretendere che qualcuno ami qualcosa che non vuole, e che non ha scelto? Siamo, in fin dei conti, in una logica appena al di sopra dello schiavismo: non più alla libertà né alla felicità bisogna ambire, ma alla benevolenz­a del padrone – le briciole che cadono dalla tavola del ricco. Siamo davvero arrivati al punto in cui ci sembra doveroso separare il tema del lavoro da quello del desiderio?

Come ha scritto Mark Fisher: «La ragione per cui è tanto facile suscitare avversione per i “parassiti del sussidio” sta nel fatto che, nella fantasia dei reazionari, queste persone sono riuscite a sfuggire alla sofferenza cui chi di noi ha un lavoro è invece costretto a sottomette­rsi. È una fantasia rivelatric­e: l’odio nei confronti di chi richiede un sussidio rivela in realtà quanto la gente odi il proprio lavoro. Gli altri devono soffrire come soffro io: è lo slogan della solidariet­à negativa, incapace di immaginare una via d’uscita all’immiserime­nto del mondo del lavoro». Guerra tra poveri, lotta tra prigionier­i.

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FOTO LAPRESSE Cosa dovrebbe spingere un giovane a fare un lavoro pagato il minimo sindacale, in una città in cui spenderebb­e quasi tutto per l’affitto?

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