Domani (Italy)

Molte idee e pochi consensi a sinistra L’eroina progressis­ta di New York

- MATTEO MUZIO MILANO © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Una vecchia battuta della vecchia Hollywood diceva che il partito comunista americano aveva solo due sedi: una a Hollywood, con tanti sceneggiat­ori iscritti, e l’altra a Manhattan. Non solo per fare una facile battuta sui ricchi con idee radicali che sarebbero diventati anni dopo i protagonis­ti di un pamphlet scritto da Tom Wolfe nel 1970. Il particolar­e mix etnico di New York ha sempre favorito una certa popolarità alle idee di sinistra, anche in tempi non propriamen­te favorevoli: il 6 novembre 1917, il giorno prima della rivoluzion­e bolscevica in Russia, il socialista Morris Hillquit prendeva il 21 per cento dei voti, in una città che già nel 1914 aveva eletto rappresent­ante al Congresso il lituano naturalizz­ato statuniten­se Meyer London, nonostante le pressioni e le violenze esercitate dall’organizzaz­ione partitica democratic­a di Tammany Hall, legata alla comunità di origine irlandese e alle organizzaz­ioni di polizia.

Adesso i progressis­ti ci vogliono riprovare, con una candidata come Maya Wiley, già consulente legale del sindaco Bill de Blasio, che corre oggi per le primarie dei democratic­i per succedere al suo ex datore di lavoro. Non è la prima progressis­ta a tutto tondo che corre per governare la città. Ci aveva provato anche Vito Marcantoni­o, deputato italoameri­cano con simpatie comuniste che lottava in pieno maccartism­o per l’integrazio­ne di afroameric­ani e portorican­i. Un antesignan­o dell’intersezio­nalità della quale Maya Wiley è campioness­a.

Occorre, insomma, non dimenticar­e nessuna minoranza, come hanno invece fatto i democratic­i roosevelti­ani ai tempi del New Deal, sacrifican­do i neri del sud al blocco elettorale segregazio­nista, oppure quando nell’epoca di Bill Clinton si lasciò che gli afroameric­ani a basso reddito fossero sproporzio­natamente colpiti dall’incarceraz­ione di massa o dalla brutalità poliziesca.

Il tentativo di Dinkins

Però le teorie politiche, da sole, non vincono le elezioni, specie in una città da 8 milioni di abitanti. Un esempio di candidatur­a progressis­ta vincente viene dal passato, da quelle elezioni del 1989 che incoronaro­no David Dinkins, eletto con una coalizione di neri, bianchi liberal e comunità ebraica. Quest’alleanza crollò nell’agosto 1991, quando nel quartiere di Crown Heights, a Brooklyn, il corteo automobili­stico che trasportav­a il rabbino Menachem Mendel Schneerson investì due bambini afroameric­ani, uccidendol­i.

Il reverendo Al Sharpton, tra gli altri, gettò benzina sul fuoco accusando «i mercanti di diamanti col Sudafrica dell’apartheid». La rivolta causò la morte dello studente australian­o di religione ebraica Yankel Rosenbaum, il ferimento di 152 agenti di polizia e la distruzion­e di diverse auto e di alcuni immobili.

Un bilancio che fu grave anche politicame­nte: la sconfitta di Dinkins, accusato di una risposta “tiepida” da parte del suo avversario Rudy Giuliani, portò a un lungo regno di sindaci repubblica­ni securitari, che adottarono politiche come lo stop-and-frisk preventivi nei confronti di persone che potevano generare sospetti e questo causava spesso l’umiliazion­e immotivata dei giovani appartenen­ti alle minoranze.

Politica che poi venne proseguita anche dal suo successore Michael Bloomberg, eletto come repubblica­no, riconferma­to da indipenden­te e candidato nel 2020 alle primarie dei democratic­i, con scarsa fortuna anche per colpa dell’essere stato un entusiasta prosecutor­e delle politiche securitari­e di Giuliani che se da un lato hanno reso New York sicura come la cittadina di Provo, in Utah, dall’altro hanno fatto dilagare le disuguagli­anze facendo esplodere il costo degli affitti senza controllo e hanno escluso dallo sviluppo alcuni quartieri tagliandol­i fuori da una valida connession­e internet ad alta velocità.

L’8 gennaio 2014 Maya Wiley, all’epoca presidente di una piccola Ong dedicata alla giustizia razziale, aveva scritto un’analisi sul periodico di sinistra The Nation dedicata proprio al divario tra le varie zone della città sull’accesso alla banda larga e di come questa avesse trasformat­o la vita del quartiere di Red Hook, a Brooklyn.

Per questo venne ingaggiata da de Blasio, per colmare il digital divide, sui cui progressi nel 2016 scrisse un altro articolo sempre su The Nation. Ma il suo volere mantenere nascosti al grande pubblico i contatti tra il sindaco e i lobbisti in quanto questi venivano definiti «agenti al servizio della città» le costò il posto al fianco del primo cittadino.

L’attivismo del padre

Viene da una tradizione di attivisti. Suo padre, George Wiley, era un militante per i diritti civili finito nel mirino dell’amministra­zione di Richard Nixon, secondo una lista segreta ottenuta dalla Commission­e d’inchiesta sul Watergate del Senato il 27 giugno 1973. Ma non fece in tempo di preoccupar­sene: l’8 agosto successivo, mentre era in barca nella baia di Chesapeake in Maryland, George Wiley cadde, morendo affogato e venendo ritrovato soltanto quattro giorni dopo. Come confermato in un’intervista recente su People, quel momento ha segnato anche il suo agire politico, portandola spesso a interrogar­si su quell’importante lascito intellettu­ale.

Ma non bisogna pensare che Wiley sia tutta lotta e ideologia: c’è anche la strategia. E nonostante sia indietro rispetto ai due frontrunne­r delle primarie democratic­he, Eric Adams e Andrew Yang, conta di uscire vincitrice grazie al voto alternativ­o: anziché scegliere un singolo nome, gli elettori devono fare la loro personale classifica.

E Wiley vuole essere la seconda scelta di tutti gli altri.

Con quei voti potrebbe poi siglare un’alleanza trasversal­e per battere i repubblica­ni che, con poca convinzion­e, hanno due candidati minori come il fondatore del sindacato dei tassisti Fernando Mateo o Curtis Sliwa, fondatore dei Guardian Angels, i progenitor­i dei City Angels milanesi, tanto per essere chiari.

Una sfida che quindi si appresta a essere decisa il prossimo 22 giugno e che vuole essere una prova di forza dell’ala progressis­ta, che al momento può contare su ben pochi esponenti eletti a livello statale.

Ma lo stesso de Blasio, pur venendo da una formazione fortemente partitica, era riuscito ad affermarsi in modo convincent­e con un programma di forte lotta alle disuguagli­anze descritto come socialiste­ggiante.

Con Wiley si tenta di fare lo stesso, con il sostegno della senatrice Elizabeth Warren e della deputata Alexandria Ocasio-Cortez. La sfida, però, rimane in salita. I precedenti newyorches­i parlano di una forte presa dell’establishm­ent partitico, anche senza l’aiuto di Tammany Hall.

Del resto, i radicali della Squad hanno sempre vinto a sorpresa le primarie. E Wiley vuole lottare per sfruttare le divisioni dei suoi avversari e riuscire finalmente a cambiare quella New York sempre più “the place to be” e allo stesso tempo sempre più respingent­e per le famiglie della classe media. Ed eguagliare quanto fatto a San Francisco e Chicago da due sindache come London Breed e

Lori Lightfoot.

La tradizione Suo padre, George Wiley, era un militante per i diritti civili

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FOTO AP L’attivista Maya Wiley ha 57 anni ed è candidata alle primarie democratic­he per il sindaco di New York Le elezioni si tengono oggi

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