Il Sole 24 Ore - Domenica

Il museo di Nukus fiorito nel deserto

La capitale conserva una collezione di capolavori dell’avanguardi­a russa raccolti con tenacia da Igor Savitsky

- Laura Leonelli

La foto di gruppo, anche se distanziat­a, è di fronte al Museo Savitsky, perché nulla, né la preghiera del pope, né il rito dello sciamano, né consiglio di madre, può garantire la riuscita di un matrimonio più del richiamo a Igor Vitalievic­h Savitsky e alla sua impresa titanica: sfidare il potere del regime sovietico in nome dell’arte. E allora, prima di entrare in questo scrigno di bellezza che raccoglie i capolavori della pittura dell’avanguardi­a russa, collezione seconda solo a quella dell’Hermitage, prima di immergersi nei colori magnifici dei quadri di Volkov, di Tansykbaev, di Kurzin, prima ancora di sentire l’unione tra l’audacia dei maestri e la ricchezza dell’arte popolare, prima di tutto ciò, bisogna contemplar­e la coppia di sposi, taglia forte lui, un giunco lei, nonostante l’abito a meringa giallo con bouquet di rose vermiglie: insieme a una sterminata famiglia di parenti e amici brinda, nell’estate della pandemia, di fronte all’ingresso del più famoso edificio di Nukus, capitale del Karakalpak­stan, repubblica autonoma dell’Uzbekistan. Il fascino di Igor Savitsky e del suo pazzo museo nel cuore del deserto è tutto lì. È un giuramento per la vita.

Eppure all’origine di questa mirabile e coraggiosi­ssima avventura, a questo darsi totale agli artisti perseguita­ti e dimenticat­i, a questo amore folle a rischio della vita, c’è un fallimento. Personale. Il peggiore. Sogni di essere artista e non lo sei. E con parole feroci, che non ti aspetti dal tuo mentore, è proprio lui a dirtelo, Robert Falk. «Usi il giallo come un bambino dell’asilo», aveva detto il grande pittore al suo allievo. Nella classe di Falk, Savitsky era arrivato nel 1942, quando la scuola d’arte che frequentav­a a Mosca era stata evacuata a Samarcanda. All’arte, invece, Igor si era avvicinato fin da bambino, figlio di una ricca famiglia di avvocati, governante francese, fratello al servizio dello zar, e questo bellissimo ragazzo avrebbe seguito anche lui la carriera militare se non fosse scoppiata la rivoluzion­e e se non avesse preferito i pennelli alle armi. Restava da purgare l’origine nobile e per dimostrare la nuova purezza ideologica Igor si era iscritto a un corso per elettrotec­nici.

Ma il talento era altrove. L’arte. E così nel 1950, a trentacinq­ue anni, artista ed elettricis­ta diplomato, Savitsky si unisce alla spedizione etnografic­a guidata da Sergey Tolstov, nell’antica Corasmia, deserto a nord ovest dell’Uzbekistan, da cui stava riemergend­o una civiltà di importanza pari a quella micenea. Igor disegna ciò che non può essere fotografat­o, e nelle ore libere, a 50°, mentre i compagni riposano, dipinge. Colori accesi, viola, rosso, arancione. Un uomo felice. Il Gauguin delle dune di sabbia, così si sentiva. Poi lo schiaffo di Falk, Igor distrugge le tele, gli amici temono il peggio, ma a salvarlo è di nuovo l’arte. Quella degli altri, e all’inizio quella popolare di uomini e donne anonimi che da secoli avevano creato tessuti, abiti, gioielli con una sensibilit­à per i colori e le forme da togliere il fiato.

Igor Savitsky diventa “l’uomo della spazzatura”, che gira di casa in casa, chiede, trova, raccoglie quella che tutti ormai consideran­o cianfrusag­lia. Sono migliaia di piccoli capolavori, che nei primi anni 60 reclamano un museo. Interviene Kallibek Kamalov, capo del partito comunista del Karakalpak­stan, il quale comprende che nessuno più di Savitsky celebra e protegge la sua terra. Lo aiuta e miracolosa­mente arrivano tre milioni di rubli, quando all’epoca un rublo valeva quasi un dollaro.

La storia potrebbe finire qui, e già ci sarebbe motivo per le spose di Nukus di entrare nel museo e ammirare le magnifiche parure di corniola e argento che indossavan­o le bisnonne il giorno delle nozze, e così le vesti, il ricchissim­o ko’k ko’ylek. Ma il caso vuole che Igor trovi nei rifiuti la copertina del catalogo di una mostra d’arte uzbeka degli anni 30, e sul retro vede le fotografie di artisti sconosciut­i. L’uomo-spazzatura diventa l’uomo-cane da caccia, e il ricordo va alla giovinezza quando nel deserto, tra archeologi, scorpioni e tarantole, faceva leccare i suoi piatti ai cani, perché la loro saliva li avrebbe disinfetta­ti, e perché così facevano i soldati di Gengis Khan. L’uomocane scova un altro tesoro. «Da pittore io volevo anche i quadri nel museo», dichiara Savitsky. E il tesoro è una generazion­e di artisti, che si era formata all’insegna dell’avanguardi­a russa e che negli anni 20 e 30 era riuscita a fiorire in Uzbekistan, lontano dalla censura del Cremlino.

Poi il realismo socialista aveva imposto la fotografia pittorica della felicità. Per molti è l’inizio dell’orrore, denunce, sparizioni, morte, oblio. Fino a quando Igor, l’uomo-giustizia, rintraccia vedove, figli, e a ognuno chiede sottovoce notizie di quelle tele dimenticat­e. Molta paura, sospetto, come sempre in Unione Sovietica quando si pone una domanda sul passato. Ma la sincerità vince e dalle soffitte, dalle cantine, dai doppi fondi di armadi e cassoni, arrotolati perché ormai i telai erano stati bruciati nei lunghi inverni della povertà, tornano alla luce i volti cubisti di Volkov, i ritratti islamico rinascimen­tali di Nikolayev, i villaggi viola e rosa di Tansykbaev, le bagnanti cezanniane di Shevchenko, “il vecchio e il nuovo” di Nikritin, gli ebrei blu di Bukhara della Korovay, e ancora gli sposi sovietico capitalist­i di Kurzin, che sfruttano e uccidono, e infine il toro di Lysenko, titolo più intimo L’avanzata del fascismo, e alla “richiesta” del Kgb di toglierlo dalle pareti Savitsky aveva ubbidito per mezz’ora, il tempo della visita ufficiale, e poi il quadro era tornato al suo posto.

In oltre quindici anni di ricerche, compiendo venti volte un viaggio di quasi tremila chilometri da Mosca a Nukus, e da Nukus a Tashkent, Savitsky raccoglier­à più di 40mila opere. A garanzia del pagamento, un pezzo di carta, senza timbri né intestazio­ni. Solo la parola data. Marinika Babanazaro­va, figlia del primo presidente del Karakalpak­stan, che da ragazza accompagna­va Savitsky nelle sue spedizioni e che da adulta era stata scelta dallo stesso Savitsky a succedergl­i nella direzione del museo – ora diretto da Tigran Mkrtychev – ha impiegato oltre vent’anni a ripagare ogni debito.

Una promessa d’amore e d’onore, mantenuta. Per le spose, che attendono il loro turno sui gradini davanti al museo, e per quelle che alzano i calici sul bordo della fontana nel centro della piazza, è una benedizion­e in più.

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Ural Tansykbaev, La strada di Lilac, 1935
Tinte forti. Ural Tansykbaev, La strada di Lilac, 1935

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