Avventure del termine che ha fatto la storia
Sarà capitato a molti di ascoltare o di leggere l’inizio del vangelo di Giovanni, quel primo versetto del celebre prologo. È un testo che colpisce per il ritmo, anche nella traduzione: «In principio era il Verbo,/ il Verbo era presso Dio/ e il Verbo era Dio». Poco dopo le parole abbracciano il creato: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui,/ e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». Il Verbo indica il Cristo ed è così chiamato perché nella lingua greca in cui fu scritto il Nuovo Testamento si utilizzò il termine “logos”, che i latini tradussero con “verbum”.
Senonché “logos”, pur limitandosi agli scritti neotestamentari, dove si notano 330 ricorrenze, è carico di significati. A volte nei vangeli - è il caso di Marco 2,2 - coincide con l’annuncio del Regno di Dio; in Paolo, per esempio nella Lettera ai Romani
9,6, indicherebbe la parola di Dio rivolta a Israele. Non si creda che tutto finisca qui. Recenti studi rimandano il “Logos” di Giovanni alla tradizione giudaica e non greca, basandosi anche sulla versione della Bibbia dei Settanta, dove si scelse di rendere con “logos” l’ebraico “dabar” (si potrebbe intendere come parola divina che, oltre a rivelare, opera quanto annuncia).
Qui l’argomento diventa ancora più ampio. E non è possibile proseguire, anche perché si dovrebbe elencare quanto è stato elaborato sull’argomento, materia che ha riempito biblioteche. Diremo soltanto che il prologo di Giovanni, letto da un filologo classico, potrebbe rimandare agli stoici; uno storico della filosofia antica citerebbe l’opera di Filone di Alessandria De opificio mundi in cui il “logos” «è un organon tramite il quale tutto accadde»; un grammatico vi riempirebbe di significati oscillanti tra “ragione”, “discorso” (interiore ed esteriore), “parola”; e anche altro.
Più semplicemente diremo che questo tema non lo abbiamo affrontato per esporre una tesi, ma per segnalare la pubblicazione di cinque studi sul “logos” nella filosofia antica, scritti da Patrizia Laspia, Claudia Luchetti, Lucia Palpacelli, Roberto Medda e Ludovica De Luca (per la cura dell’opera si devono aggiungere Francesco Pelosi e Diana Quarantotto). Nel libro si affrontano questioni riguardanti soltanto il pensiero greco e non si giunge ai dibattiti cristiani. Tuttavia il saggio sul “logos” di Socrate come icona del Bene e della conoscenza di sé nel Fedone platonico si presta a non poche riflessioni; così va detto del contributo che affronta interrogativi presenti proprio nel De opificio mundi di Filone. Poi c’è Aristotele, non manca nemmeno Omero; anzi un testo è dedicato a quanto capitò a logos e corradicali tra il sommo poeta e il celebre filosofo. È un libro che illustra non poche avventure di una parola dai molteplici valori, che la fede cristiana ha reso essenziale e il linguaggio comune ha utilizzato senza porsi soverchie questioni (per esempio, quando si pronuncia il vocabolo “logica”).
Che aggiungere? Un’ipotesi da taluni fatta risalire a Michail Vasilevič Lomonosov, l’autore della Rossijskaja gramatika (Grammatica russa, 1757; introduce per la prima volta la distinzione tra lo slavo ecclesiastico e lingua parlata), sosterrebbe che con “logos” i greci coprirono una serie di significati ormai senza controllo, che parole sfuggite al senso comune alimentavano senza requie. Un azzardo? Forse. Anche noi, però, con il termine “amore” siamo su questa strada: è talmente usurato e inflazionato da costituire un problema interpretativo. Non ci stupiremo se in un tempo a noi vicino qualcuno chiederà, in nome del linguaggio politicamente corretto, di non pronunciarlo.