Romanzo di (de)formazione
Requiescant in pace, si potrebbe dire di molte autrici italiane del secolo scorso, coperte dalla solita coltre di oblio toccata alle donne inventive del passato e segnate nell’aldilà dalle stesse discriminazioni patite in vita. Dico subito che non tutte erano scrittrici straordinarie, ma spesso, a parità di valore e qualità rispetto ai colleghi maschi, non ha corrisposto un analogo ricordo né il posto dovuto nella storia letteraria. Una premessa d’obbligo per parlare della riedizione di un libro di Brianna
Carafa che nel 1975 fu selezionato per la cinquina dello Strega, La vita involontaria, ora ripubblicato dall’editore Cliquot con la prefazione di Ilaria Gaspari che l’ha tirato fuori, per usare le sue stesse parole, dal buio in cui era scivolato. Buio tanto più fitto perché tre anni dopo, pochi giorni prima dell’uscita di un suo secondo romanzo, la scrittrice scomparve precocemente. Era nata a Napoli cinquantaquattro anni prima in una famiglia aristocratica e intellettuale: il padre, il duca Antonio Carafa d’Andria, aveva tradotto
Goethe, e la nonna polacca, da cui, orfana di madre, aveva vissuto a Roma fin dall’adolescenza, era stata autrice di pamphlet a favore del suffragio femminile.
Brianna scriveva poesie, era tra i redattori di una raffinata rivista di versi e fotografie, «Montaggio», ma di lavoro faceva la psicoanalista, e la psicoanalisi in termini non proprio lusinghieri entra anche in La vita involontaria. È la storia di Paolo Pintus, un ragazzo che vive in una città immaginaria di una, sembrerebbe, nevosa Mitteleuropa, e lentamente costruisce la sua strada adulta combattendo una costante sensazione di distanza dalla vita: «Troppe cose erano sempre, perpetuamente sfuggite al mio controllo, la realtà m’era scivolata fra le dita come acqua…». Amici, donne, famigliari, e più tardi studi e professori non allentano la presa dell’irrealtà fino a che la incerta scienza della psicologia gli si presenta come un’ancora di salvezza. Ma anche questo non sarà che un inganno, forse più crudele degli altri. E, quasi in un circolo perfetto e vizioso, tutta la traiettoria che il protagonista cerca di compiere per raggiungere l’età adulta e la saggezza lo porterà proprio a varcare il muro dell’ospedale psichiatrico che vedeva da bambino e dietro al quale intuiva, per vie misteriose, la presenza di una vita ombrosa, ma forse più vera e autentica di quella che sentiva essergli destinata.
Quando il libro uscì da Einaudi Italo Calvino lo accompagnò nella quarta di copertina con queste parole: «È un libro di qualità: qualità narrative perché certo ’succede qualcosa’ e qualità di scrittura, così ferma e chiara». A una lettura – la mia – molti anni dopo e in un’altra epoca culturale, colpisce sicuramente la perfezione e l’intelligenza della prosa di Carafa, ma anche l’uso narrativo della prima persona maschile, come se il giovane Pintus, più che un personaggio vero e proprio, fosse una maschera dolorosa dell’autrice, e nella sua storia, più di deformazione che di formazione, ci fosse la traccia di una femminile ritrosia a mettersi a nudo, a raccontarsi se non per interposta persona. Così che La vita involontaria è la storia di una distanza e di un disagio esistenziale ma anche una elegante e insieme disperata protesta contro la falsità e la fatuità del gioco sociale: «La verità giace come un terribile animale addormentato in qualche angolo della notte, e quando si risveglia grida».