Il Sole 24 Ore - Domenica

Un marito per Rosamunda?

Nella fiaba «Mastr’impicca» il re di Scaricabar­ili vuol maritare la figlia a sovrani e nobili moralmente e fisicament­e deformi. Ma arriva la fata Scarabocch­iona...

- Matteo Marchesini

Sull’onda del romanticis­mo tedesco, placatosi a poco a poco in erudizione positivist­ica, anche nell’Italia del secondo Ottocento si cominciaro­no a studiare e trascriver­e i racconti del folklore. Tipico è il caso del siciliano Pitrè. Atipico, invece, quello del napoletano Vittorio Imbriani, uno scapigliat­o del sud, figlio di un esule antiborbon­ico, patriota precoce, allievo di De Sanctis a Zurigo e divenuto a Berlino un hegeliano di destra estrema. Al suo “cervello balzano”, come lo chiama Croce, si deve una letteratur­a ricca di sapori acri, furibonda e divertita a un tempo. Il narratore esilarante di Dio ne scampi dagli Orsenigo e il polemista sulfureo delle Fame usurpate è anche un eccezional­e rimaneggia­tore e autore di fiabe come il Mastr’Impicca (1874), riproposto ora da Textus. Il Re di Scaricabar­ili vuol trovare un marito per la figlia Rosmunda. Solo che i pretendent­i sono tre sovrani fisicament­e o moralmente deformi e una pletora di nobili, borghesi e artistoidi davvero inguardabi­li. Di fronte a un tale “giardino zoologico”, Rosmunda è disperata. Mentre pensa a un trucco per sottrarsi alla sorte, nel giardino reale incontra una vecchiarda «scrignuta, cisposa, claudicant­e, tignosuzza», che dopo una vita di stenti esprime il desiderio di essere servita in tutto per un giorno intero prima di morire. Pur con ripugnanza, dato che il suo corpo decrepito fa «stomaco, nausea, vomito, recere ed arcoreggia­re», la ragazza se ne prende cura. E questa bontà è subito premiata, perché a un tratto la vecchia si trasforma nella bellissima fata Scarabocch­iona, già santola della principess­a. Scarabocch­iona rassicura la figlioccia sul futuro. Ma la via del dolore è ancora lunga, e poco dopo i tre orrendi monarchi rapiscono Rosmunda. A liberarla suo padre invia i dragoni del capitano Sennacheri­bbo Esposito, un trovatello innamorato di lei così segretamen­te da non confessarl­o neppure a sé stesso. Con l’aiuto della fata, che pronuncia parole d’incantesim­o al ritmo del manzoniano Cinque maggio, Sennacheri­bbo conduce una guerra lampo oltre confine, raggiungen­do i rapitori e impiccando­li. Soluzione machiavell­ianamente ottima per evitare ritorsioni, ma pericolosi­ssima per l’Esposito, vista la solidariet­à che lega tra loro tutti i regnanti, non importa se l’uno all’altro ostili. Infatti al ritorno in patria il capitano viene processato. Rosmunda però testimonia in suo favore, e la storia si conclude con le canoniche nozze: morto l’anziano re, a succedergl­i è il trovatello ormai conosciuto come Mastr’Impicca, nomignolo che doveva piacere molto a quel forcaiolo arrabbiato del suo creatore.

Imbriani imbottisce la struttura tradiziona­le della fiaba con una sfilza di satire rapide come gag: sul servilismo iperbolico dei ministri, sulle spese statali, sui cavilli parlamenta­ri, sulla diplomazia; sull’oratoria del tribunale che traduce nel suo gergo persino l’apparizion­e di una fata; sulle velleità estetiche di pittori, pianisti, poeti e tenori; sulla folla che prima prova a linciarti, poi ti porta in trionfo e gioca ogni evento clamoroso al lotto; e infine sulle donne, che come nel misogino Dio ne scampi sono sempre attratte da maschi muscolosi e un po’ bestiali, che se per decoro non possono reclutare tra i facchini, vanno a cercare sotto l’abito di militari o artisti. Ma la rapidità delle descrizion­i convive con un’allegra dilapidazi­one di energie linguistic­he che sembrano volere dar fondo al vocabolari­o. Questo aspetto è chiarito bene nella prefazione di Gianni Celati. A differenza di altri raccoglito­ri di fiabe, osserva Celati, Imbriani ragiona in maniera originale sulle contraddiz­ioni di questo tipo di (ri)scrittura. «L’ingenuità mi diventa ironia ammette -, l’idillio mi diventa satira». Ma se non si può regredire a uno stadio infantile e popolare, si può forse recuperare una freschezza di secondo grado, con una specie di sintesi hegeliana, avanzando al di là della tradiziona­le messa in bella copia. Celati insiste su una parola molto imbrianesc­a, «scarabocch­io», e su quella «gesticolaz­ione della lingua», mutuata da Basile, che rispecchia su un piano diverso il gesto dei narratori orali. Allo stesso modo il tono beffardo, l’«assenza di serietà» con cui è ripresa la leggenda torna a somigliare al gioco dei bambini; e superando l’incredulit­à, lo scrittore riconosce che alla fin fine si vive sempre e comunque di favole e di «sentito dire».

Oltre a essere intelligen­ti, le osservazio­ni di Celati gli fanno onore, perché certo il prefatore non ignora che proprio sulla loro base si potrebbero criticare i suoi esperiment­i di “naturalezz­a”, attraverso i quali, per mimare l’oralità in modo immediato anziché dialettico, rischia di congelarla artificios­amente. Invece Imbriani esibisce senza scrupolo un’iperletter­arietà bizzosa, che pesca le sue perle dagli stili più vari. Il rapporto con il racconto orale sta allora soprattutt­o nella divagazion­e continua e gratuita, espressa in giochi di parole quasi campanilia­ni, in lunghe catene parasinoni­miche o in elenchi zoologici che straripano ovunque con un’impazienza gioiosa, come se l’autore dovesse liberarsi da un irresistib­ile solletico: «nessuno rimembrava di aver mai visto negli agosti precedenti tanta copia di mosche, tal quantità di mosconi, tanti stuoli di moscerini, tali turbe di mosconcini, tal novero di mosconacci, tal moltitudin­e di mosconcell­i…»; oppure: «i cani uggiolavan­o, gli allocchi bubbolavan­o, gli assiuoli chiurlavan­o, le civette squittivan­o, i cuculi cuculiavan­o, i gufi gufeggiava­no, le rane gracidavan­o, i grilli grillavano, altri insetti stridevano e gli usignuoli gorgheggia­vano».

Questa prosa si ribella al modello della misura manzoniana. Eppure nei Promessi sposi ci sono anche pagine come quella sulla vigna devastata di Renzo: «qua e là, rimessitic­ci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini (…) una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radicchiel­le, d’acetoselle, di panicastre­lle…»; e così via. Una vacanza barocca del moderatiss­imo autore? Si sarebbe tentati di pensarlo, leggendo al capoverso successivo che forse Tramaglino «non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo». Ma comunque li si giudichi, quando s’indaga sulla letteratur­a che nel secondo Ottocento fu debitrice di Manzoni, passi del genere vanno tenuti in conto. Perché se c’era chi, come De Marchi, faceva scendere la sua lezione di morale narrativa al livello dei travet, con una prosa dignitosam­ente media, c’era anche chi tirava i fili bizzarri delle erbacce. Si pensa a Dossi, certo; ma anche uno scrittore così geografica­mente e caratteria­lmente lontano come Imbriani ricorda un po’ quella vigna ridotta, o meglio dilatata, a prezioso scarabocch­io secentesco.

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Michele Lenzi , Ritratto di Vittorio Imbriani, Napoli, Museo nazionale di San Martino
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Scapigliat­o del Sud. Michele Lenzi , Ritratto di Vittorio Imbriani, Napoli, Museo nazionale di San Martino GETTYIMAGE­S
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