Chi ha detto che siamo in balìa della decadenza?
«Quello che ci affascina e ci terrorizza dell’Impero romano non è che alla fine sia crollato, ma che sia riuscito a durare per quattro secoli in mancanza di creatività, di ardore o di speranza»: così il poeta W. H. Auden fotografava il paradosso di una potenza indecisa a tutto, anche a togliere il disturbo. Ci aspetta lo stesso scenario? È una domanda ricorrente, che sta alimentando il (fin troppo) ricco filone della letteratura declinista, spesso condizionato dalle visioni più apocalittiche à la Spengler. Ecco allora un titolo che si distingue per il suo approccio aperto, se non all’ottimismo, a esiti non scontati: ne è autore Ross Douthat, un columnist del New York Times, rara avis da quelle parti, viste le sue posizioni di cattolico e di conservatore.
Stagnazione, sterilità, sclerosi e ripetizione sono i «quattro cavalieri», se non dell’apocalisse, di una diffusa stanchezza e mancanza di entusiasmo, nelle quali si sta consumando il nostro stesso successo. Dopo gli anni della corsa allo spazio, non siamo stati più capaci di appassionarci, di avventurarci al di là delle frontiere, di immaginare un futuro diverso; mentre l’evoluzione culturale si è di fatto fermata gli anni 90. La stagnazione economica, dunque, è solo un aspetto della decadenza attuale. Una società con meno giovani sarà fatalmente meno dinamica, meno motivata al rischio e socialmente più stratificata. L’impotenza della politica si manifesta nella soggezione a pressioni di ogni sorta, compresi Twitter e i talk show, e sbocca nel fascino per l’uomo forte. La ripetizione si esprime nella ricerca dell’ovvio e del condiviso, nell’indifferenza, quando non nell’ostilità, verso le idee non ortodosse (tendenza favorita da Internet e social), prospettandoci un futuro di grande noia e conformismo. Qui Douthat, per spiegare come mai pure i giovani di oggi, individualisti, affrancati da tabù, appartenenze religiose e militanze politiche, siano partecipi di queste tendenze cita il sociologo Robert Nisbet: «Se non c’è comunità, non c’è niente da sfidare, niente dove imprimere dinamismo; e se non c’è nient’altro che trasgressione, non c’è nulla che possa assicurare agli atti trasgressivi lo scopo, la sostanza e il senso che li rendano qualcosa di più che non espressione di mera auto-indulgenza». Alla fine, è proprio il diffuso senso di decadenza a spiegare populismi di ogni sorta e sfiducia crescente nella democrazia liberale.
Ma la decadenza, ci ricordano Douthat e i Romani del basso Impero, può essere dorata e duratura, e dominata, più che dalla disperazione, dall’appagamento: in fondo, cosa ci manca? Gli stessi indicatori sociali dimostrano che le nostre società sono molto più tranquille di un tempo, meno violente, ma anche più cloroformizzate dalla dimensione virtuale che spesso spinge i giovani ai margini del mondo reale e li indirizza non verso un autentico impegno politico, ma «a simulare l’estremismo» sui social. Un regime appagato, distratto e amorfo si rivela così pronto tanto per il «dispotismo gentile» tratteggiato da Houellebecq che per le forme di “credito sociale”, cioè della sorveglianza permanente dei singoli cittadini premiati o castigati in base al grado di soggezione al regime dimostrata attraverso i propri comportamenti. A meno da non restituire spazio a forme di tecnocrazia quale il modello impersonato da Obama, l’unico capace, forse, di rendere sostenibile il declino attraverso l’esercizio del riformismo; ed è per questo che l’autore spiega di non aver votato Trump, che nel 2016 considerò espressione di una volontà distruttrice delle basi stesse della politica e della convivenza.
Ma Douthat non ci lascia disperati: non è affatto scontato che l’esito della decadenza sia il crollo rovinoso. E fattori diversi potranno concorrere a quelle che l’autore prefigura come nuove forme di Rinascimento: l’inarrestabilità dello sviluppo cinese è tutt’altra che pacifica, l’Africa sarà il continente che riserverà più sorprese, i progressi dell’intelligenza artificiale daranno vita a nuove forme di guerre culturali, e dunque a uno scontro di idee, le ondate migratorie creeranno traumi ma anche forme di rinnovamento sociale e di rafforzamento demografico. Su tutto, due elementi giocheranno un ruolo decisivo, ossia «il progresso scientifico e il revival religioso»: quest’ultimo in grado di non farci soccombere a quello «scetticismo corrosivo», frutto della oscura consapevolezza di essere «giunti, in questa fase della storia, al limite delle nostre capacità».