Il Sole 24 Ore - Domenica

Se un ranch attrae più di violenza e droga

L’associazio­ne di cowboy neri ha ridotto il degrado di Compton

- Ermanno Bencivenga

Dai film non si direbbe, fatta eccezione per rari esempi come Duello a El Diablo (con Sidney Poitier) o Mezzogiorn­o e mezzo di fuoco (di Mel Brooks), ma nella storia dell’American West i cowboy neri non mancavano certo: costituiva­no fino a un quarto del totale. Tra i più famosi c’era Nat Love, detto Deadwood Dick, nato schiavo e divenuto un tiratore esperto nel mondo di Pat Garrett e Billy the Kid. Fuggiti dal Sud alla fine della Guerra civile per evitare le ingiustizi­e e le rappresagl­ie dei razzisti, trovarono nel pascolo del bestiame un contesto meno segregato e più equo di ogni altro, in cui lavoravano e venivano pagati come i bianchi. Addirittur­a, la stessa parola «cowboy» è un loro retaggio, perché «boy» era il modo ingiurioso in cui ci si riferiva a un uomo nero adulto ma in questo caso il termine fu generalizz­ato. (Le cowgirl generalizz­ano un altro tipo di ingiuria: fino a tempi recenti era comune in America riferirsi a donne anche mature come «girls».)

Facciamo un salto di un secolo e spostiamoc­i dal Texas e Kansas di fine Ottocento alla California di fine Novecento. Più precisamen­te, fermiamoci a Compton, una delle più antiche città dello Stato e a lungo una delle più prospere, che però, dopo le sommosse di Watts nel 1965 e di Los Angeles nel 1992, aveva visto l’esodo di quasi tutte le famiglie bianche e si era ridotta a un ghetto, teatro di lotte fra gang rivali e spaccio di droga. Nota come la capitale mondiale del crack, aveva una disoccupaz­ione doppia del livello nazionale e la più alta concentraz­ione di crimine in California. È in questo ambiente violento e degradato che Mayisha Hook, nel 1988, diede vita un’iniziativa improbabil­e: un’associazio­ne/scuola di cowboy neri in una delle aree (Greater Los Angeles) più urbanizzat­e del mondo. La storia del suo impegno e di quello dei suoi allievi è raccontata in The Compton Cowboys da Walter Thompson-Hernández, giornalist­a del «New York Times» che ha sviluppato il libro a partire da un suo articolo pubblicato sulla prima pagina del giornale.

Da affermata agente immobiliar­e, Mayisha venne un giorno a dare un’occhiata a un quartiere di Compton denominato Richland Farms, che il fondatore della città, Griffith Dickenson Compton, aveva destinato nel 1889 a un’utilizzazi­one agricola e che tutt’oggi forma una piccola isola rurale tra fast food e fumi di scappament­o. Inizialmen­te, si convinse che quello era il posto dove allevare i figli; poi le sue mire si fecero più ambiziose. C’erano cavalli intorno, e Mayisha pensò che, se un ragazzo avesse imparato a cavalcare e se ne fosse appassiona­to, si sarebbe tolto dalla strada e avrebbe resistito alla tentazione di diventare un gangster. Detto fatto, nacque così la Compton Jr. Posse, che esiste ancora e, grazie all’energia instancabi­le della sua fondatrice e alle donazioni che lei è riuscita a procurarsi, ha evitato la galera e la morte a centinaia di giovani.

Thompson-Hernández fa ruotare la sua storia su un perno: dopo trent’anni, Mayisha ha deciso di andare in pensione e si sta preparando la sua festa d’addio, il ventottenn­e nipote Randy vuole succederle ma il passaggio del testimone è arduo. Il consiglio di amministra­zione è invecchiat­o con Mayisha e si ritirerà insieme con lei; i donatori sono scettici o sospettosi nei confronti della nuova gestione; quel che c’è in cassa basterebbe solo qualche mese.

I protagonis­ti della vicenda hanno l’età di Randy: sono uomini e donne che hanno imparato ad amare i cavalli, li accudiscon­o con affetto e li montano regolarmen­te, per passeggiar­e nelle strade di Compton, per competere nei rodei o per comparsate pubblicita­rie. Non sono stinchi di santo: qualcuno è entrato in una gang ed è stato in prigione, qualcun altro ha visto un fratello o un amico riverso a terra in una pozza di sangue. Ma dalla prigione sono usciti, hanno pianto i loro morti e sono tornati a questo ranch strampalat­o; e sono convinti di avere una missione, per i ragazzi che si affacciano adesso alla vita e che devono guidare

Tutto è partito

dall’impegno di Mayisha Hook,

lungimiran­te agente immobiliar­e

fuori dai pericoli come qualcuno ha guidato loro. Anzi, di missioni ne hanno due: non solo proteggere gli adolescent­i della loro scuola ma anche far posto nella coscienza comune per ciò che tutti loro rappresent­ano e che quella coscienza ha sempre trascurato o negato, «sradicare stereotipi sui cowboy neri e reinserire sé stessi e altri nei libri di storia».

The Compton Cowboys non ha un finale hollywoodi­ano in cui tutte le tensioni si risolvono: non sapremo se Charles realizzerà il suo sogno di concorrere alle Olimpiadi o Keiara il suo di diventare campioness­a di rodeo; non sapremo neanche se l’associazio­ne rimarrà in piedi. È tutto collocato in un futuro che speriamo possibile; intanto, però, l’immagine di giovani neri con un cappello Stetson in testa che cavalcano in mezzo al traffico, facendo del loro meglio per schermare gli animali dai rumori molesti che li spaventano, è una metafora potente di che cosa ci minaccia, e di che cosa ci può salvare.

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