Torino in crisi d’identità
Le ragioni del declino dell’ex «company town», che non ha saputo creare centri di ricerca e di produzione a più alta tecnologia né valorizzare il patrimonio artistico
Da culla del Risorgimento a capitale del regno d’Italia, per poi costituire il principale santuario del mondo finanziario postunitario e patrocinare l’indirizzo riformista giolittiano, all’inizio del Novecento, Torino ha svolto un ruolo-chiave nella formazione dell’unità nazionale e di volta in volta, sotto diverse sembianze, come città-guida nella formazione e nell’evoluzione del nostro Paese, ai suoi primi passi sulla strada della modernizzazione.
Ma a imprimerle, dopo di allora, i tratti distintivi che l’hanno caratterizzata per lungo tempo è stata la sua trasformazione, con gli sviluppi della Fiat, in una company town, con una forte carica innovativa e vigorose proiezioni espansive, sul modello americano della Detroit fordista. Tanto che l’impresa torinese divenne in Italia, all’indomani della Grande Guerra, l’emblema per eccellenza di un dinamico e irruente capitalismo e nel contempo l’avamposto di una “aristocrazia operaia”, nella quale una propria etica del lavoro s’univa a una salda coscienza politica: al punto che parve dovesse soppiantare, all’insegna dei gramsciani Consigli di fabbrica, durante il biennio rosso fra il 1919 e il 1920, il potere dell’imprenditore capitalista per porre le premesse della costruzione di un “ordine nuovo”, come era avvenuto in Russia dopo la Rivoluzione d’ottobre.
Queste connotazioni così peculiari che avevano contrassegnato a Torino il decollo industriale e la genesi della lotta di classe, con significative ripercussioni ideologiche e politiche nell’opinione pubblica, ricomparvero all’indomani della Liberazione, in quanto, durante il lungo viaggio attraverso il fascismo, la dinastia a capo della Fiat rimase un’entità per molti aspetti a se stante e autoreferenziale con una vocazione cosmopolita e un proprio vasto giro di interessi, mentre il regime mussoliniano non riuscì mai a inquadrare completamente entro le sue maglie il nerbo della classe operaia torinese. Tanto che, se la Fiat divenne all’epoca del “miracolo economico” l’ammiraglia del capitalismo italiano, la classe lavoratrice dei suoi stabilimenti, rappresentata nell’ambito di una produzione sempre più standardizzata non più dalla figura dell’operaio di mestiere ma da quella dell’operaio-massa (emersa, in gran parte, dalle file dell’immigrazione meridionale) tornò negli anni Settanta a misurarsi col “sistema” in una partita che aveva per posta in gioco un radicale mutamento dei rapporti di forza dentro e anche fuori dai recinti della fabbrica.
Se oggi ci si chiede quali siano stati i motivi della successiva parabola discendente di Torino, da cui prendono appunto avvio le analisi e le riflessioni di due sociologi e di uno storico, autori di un saggio einaudiano sulla crisi d’identità che affligge da tempo Torino, si deve perciò fare riferimento, a mio giudizio, innanzitutto all’estrema pregnanza e pervasività esercitata a lungo nel capoluogo subalpino da queste due forze contrapposte ma complementari giunte a forgiare larga parte della realtà sociale e il modo di pensare corrente in forme talmente incisive da non avere paragone rispetto a quanto è avvenuto in altri centri industriali del nostro Paese. Al punto che, anche quando, nel nuovo scenario della globalizzazione, la Fiat di Sergio Marchionne andò spostando il suo baricentro negli Stati Uniti con l’acquisizione della Chrysler e la ricerca di altre alleanze a livello internazionale, la classe dirigente torinese non è riuscita a costruire un’alternativa concreta che valesse ad arrestare il declino della città. D’altro canto, il rapporto dialettico fra economia, politica e società, che era stato il fattore propulsivo e il punto di forza della città-fabbrica del passato, si basava, pur nel quadro di un intenso confronto conflittuale fra capitale e lavoro, su una sostanziale sintonia fra cultura d’impresa e cultura operaia, in quanto entrambe attribuivano la preminenza all’organizzazione rispetto al mercato, che i canoni del taylorismo-fordismo e la posizione monopolistica della Fiat avevano concorso a cementare nel corso del tempo. Sta di fatto che, mentre non sono scomparsi i retaggi strutturali di un modello di sviluppo monoculturale così radicato né di certe suggestioni del “paradigma Torino”, è man mano svanita – come si evince dalle pagine di un libro a cui va riconosciuto il merito di ravvivare il discorso pubblico su questa città - la prospettiva di creare nuovi centri di ricerca e produttivi a più alta tecnologia e di valorizzare nel contempo, sulla scia del successo delle Olimpiadi invernali del 2006, il proprio patrimonio artistico e culturale mediante particolari eventi tali da incrementare un turismo di qualità (e ciò in seguito alle conseguenze della Grande crisi del 2008 e al notevole indebitamento degli enti locali dovuto alle spese per l’organizzazione delle Olimpiadi e la costruzione di una metropolitana). Né sono giunte a riposizionare efficacemente il distretto torinese le iniziative tenacemente perseguite con le migliori intenzioni dall’amministrazione comunale e da quella regionale, sotto l’egida della sinistra, sulla scorta di progetti e investimenti orientati a una nuova visione del futuro, sulla base di un’appropriata regolazione istituzionale, per l’attivazione di una governance urbana più efficace e partecipata quale piattaforma per l’avvento di un terziario avanzato. Si spiega pertanto come si sia registrata una caduta tendenziale del Pil e siano cresciute le diseguaglianze sociali. Col risultato che nel giugno 2016 una sindaca grillina è stata eletta a Palazzo Civico e adesso, dopo gli ulteriori scossoni subiti dal settore manifatturiero, c’è da dubitare, a maggior ragione, che Torino, anche a causa della sua posizione eccentrica rispetto alle nuove direttrici del sistema industriale italiano affermatesi sotto la spinta delle filiere produttive del Nord-Est e alla sua aggregazione con l’area forte del mercato unico europeo, possa risalire la china e quindi insegnare quanto occorre per rispondere alle odierne sfide cruciali del nostro Paese.