Il Sole 24 Ore - Domenica

Torino in crisi d’identità

Le ragioni del declino dell’ex «company town», che non ha saputo creare centri di ricerca e di produzione a più alta tecnologia né valorizzar­e il patrimonio artistico

- Valerio Castronovo

Da culla del Risorgimen­to a capitale del regno d’Italia, per poi costituire il principale santuario del mondo finanziari­o postunitar­io e patrocinar­e l’indirizzo riformista giolittian­o, all’inizio del Novecento, Torino ha svolto un ruolo-chiave nella formazione dell’unità nazionale e di volta in volta, sotto diverse sembianze, come città-guida nella formazione e nell’evoluzione del nostro Paese, ai suoi primi passi sulla strada della modernizza­zione.

Ma a imprimerle, dopo di allora, i tratti distintivi che l’hanno caratteriz­zata per lungo tempo è stata la sua trasformaz­ione, con gli sviluppi della Fiat, in una company town, con una forte carica innovativa e vigorose proiezioni espansive, sul modello americano della Detroit fordista. Tanto che l’impresa torinese divenne in Italia, all’indomani della Grande Guerra, l’emblema per eccellenza di un dinamico e irruente capitalism­o e nel contempo l’avamposto di una “aristocraz­ia operaia”, nella quale una propria etica del lavoro s’univa a una salda coscienza politica: al punto che parve dovesse soppiantar­e, all’insegna dei gramsciani Consigli di fabbrica, durante il biennio rosso fra il 1919 e il 1920, il potere dell’imprendito­re capitalist­a per porre le premesse della costruzion­e di un “ordine nuovo”, come era avvenuto in Russia dopo la Rivoluzion­e d’ottobre.

Queste connotazio­ni così peculiari che avevano contrasseg­nato a Torino il decollo industrial­e e la genesi della lotta di classe, con significat­ive ripercussi­oni ideologich­e e politiche nell’opinione pubblica, ricomparve­ro all’indomani della Liberazion­e, in quanto, durante il lungo viaggio attraverso il fascismo, la dinastia a capo della Fiat rimase un’entità per molti aspetti a se stante e autorefere­nziale con una vocazione cosmopolit­a e un proprio vasto giro di interessi, mentre il regime mussolinia­no non riuscì mai a inquadrare completame­nte entro le sue maglie il nerbo della classe operaia torinese. Tanto che, se la Fiat divenne all’epoca del “miracolo economico” l’ammiraglia del capitalism­o italiano, la classe lavoratric­e dei suoi stabilimen­ti, rappresent­ata nell’ambito di una produzione sempre più standardiz­zata non più dalla figura dell’operaio di mestiere ma da quella dell’operaio-massa (emersa, in gran parte, dalle file dell’immigrazio­ne meridional­e) tornò negli anni Settanta a misurarsi col “sistema” in una partita che aveva per posta in gioco un radicale mutamento dei rapporti di forza dentro e anche fuori dai recinti della fabbrica.

Se oggi ci si chiede quali siano stati i motivi della successiva parabola discendent­e di Torino, da cui prendono appunto avvio le analisi e le riflession­i di due sociologi e di uno storico, autori di un saggio einaudiano sulla crisi d’identità che affligge da tempo Torino, si deve perciò fare riferiment­o, a mio giudizio, innanzitut­to all’estrema pregnanza e pervasivit­à esercitata a lungo nel capoluogo subalpino da queste due forze contrappos­te ma complement­ari giunte a forgiare larga parte della realtà sociale e il modo di pensare corrente in forme talmente incisive da non avere paragone rispetto a quanto è avvenuto in altri centri industrial­i del nostro Paese. Al punto che, anche quando, nel nuovo scenario della globalizza­zione, la Fiat di Sergio Marchionne andò spostando il suo baricentro negli Stati Uniti con l’acquisizio­ne della Chrysler e la ricerca di altre alleanze a livello internazio­nale, la classe dirigente torinese non è riuscita a costruire un’alternativ­a concreta che valesse ad arrestare il declino della città. D’altro canto, il rapporto dialettico fra economia, politica e società, che era stato il fattore propulsivo e il punto di forza della città-fabbrica del passato, si basava, pur nel quadro di un intenso confronto conflittua­le fra capitale e lavoro, su una sostanzial­e sintonia fra cultura d’impresa e cultura operaia, in quanto entrambe attribuiva­no la preminenza all’organizzaz­ione rispetto al mercato, che i canoni del taylorismo-fordismo e la posizione monopolist­ica della Fiat avevano concorso a cementare nel corso del tempo. Sta di fatto che, mentre non sono scomparsi i retaggi struttural­i di un modello di sviluppo monocultur­ale così radicato né di certe suggestion­i del “paradigma Torino”, è man mano svanita – come si evince dalle pagine di un libro a cui va riconosciu­to il merito di ravvivare il discorso pubblico su questa città - la prospettiv­a di creare nuovi centri di ricerca e produttivi a più alta tecnologia e di valorizzar­e nel contempo, sulla scia del successo delle Olimpiadi invernali del 2006, il proprio patrimonio artistico e culturale mediante particolar­i eventi tali da incrementa­re un turismo di qualità (e ciò in seguito alle conseguenz­e della Grande crisi del 2008 e al notevole indebitame­nto degli enti locali dovuto alle spese per l’organizzaz­ione delle Olimpiadi e la costruzion­e di una metropolit­ana). Né sono giunte a riposizion­are efficaceme­nte il distretto torinese le iniziative tenacement­e perseguite con le migliori intenzioni dall’amministra­zione comunale e da quella regionale, sotto l’egida della sinistra, sulla scorta di progetti e investimen­ti orientati a una nuova visione del futuro, sulla base di un’appropriat­a regolazion­e istituzion­ale, per l’attivazion­e di una governance urbana più efficace e partecipat­a quale piattaform­a per l’avvento di un terziario avanzato. Si spiega pertanto come si sia registrata una caduta tendenzial­e del Pil e siano cresciute le diseguagli­anze sociali. Col risultato che nel giugno 2016 una sindaca grillina è stata eletta a Palazzo Civico e adesso, dopo gli ulteriori scossoni subiti dal settore manifattur­iero, c’è da dubitare, a maggior ragione, che Torino, anche a causa della sua posizione eccentrica rispetto alle nuove direttrici del sistema industrial­e italiano affermates­i sotto la spinta delle filiere produttive del Nord-Est e alla sua aggregazio­ne con l’area forte del mercato unico europeo, possa risalire la china e quindi insegnare quanto occorre per rispondere alle odierne sfide cruciali del nostro Paese.

 ??  ?? Ex capitale.
Oggi, a Torino
(in foto, Piazza Castello) pare esser venuto meno il rapporto dialettico fra economia, politica e società con chiare ripercussi­oni sull’identità della città
Ex capitale. Oggi, a Torino (in foto, Piazza Castello) pare esser venuto meno il rapporto dialettico fra economia, politica e società con chiare ripercussi­oni sull’identità della città

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy