Il Sole 24 Ore - Domenica

Le coraggiose ragioni delle rivoluzion­i

Il saggio di Marcel Gauchet sulle idee di Robespierr­e

- Luigi Mascilli Migliorini

Aqualcuno che ancora oggi insistesse in quella domanda che tanto divertiva e irritava Marc Bloch, se qualcuno, cioè, oggi volesse ancora chiedere di capire cosa sia stata la Rivoluzion­e francese, varrebbe proprio la pena di rispondere, dopo aver letto questo libro: rivolgiti a Robespierr­e!

Fu lui, infatti, secondo le pagine profonde intelligen­ti che ci regala Marcel Gauchet, figura tra le più stimolanti di quel liberalism­o francese che si lega ai nomi di Raymond Aron e poi di François Furet, a capire per primo che cosa stesse realmente accadendo in Francia. A capire, cioè, che cosa fosse una Rivoluzion­e, quando tutto e tutti intorno a lui, dopo il giuramento della Pallacorda, dopo le Costituzio­ni scritte e le Costituzio­ni violate, mentre la guerra cresceva intorno e sempre più mostrava il volto di un conflitto tra due tempi e due Europe, si affannavan­o ancora a immaginare che si trattasse di una trasformaz­ione di ciò che era fino ad allora esistito, di una riforma di ciò che di sbagliato o sempliceme­nte di inattuale ci fosse da eliminare rispetto al passato. A loro, a tutti quelli che esitavano, che si rammaricav­ano delle troppe macchie che le circostanz­e sembravano imporre alle loro idee luminose, dei troppi e talvolta brutali inciampi che ostacolava­no un cammino annunciato come ragionevol­e e consensual­e, egli buttò in faccia una domanda sferzante: «Volevate, forse, una Rivoluzion­e senza Rivoluzion­e?».

Meno brutale della frase non meno celebre che dobbiamo a Mao –«La Rivoluzion­e non è un pranzo di gala» quella pronunciat­a da Robespierr­e la supera largamente per la non compiaciut­a coscienza della drammatici­tà di quella che anche per lui, avvocato di Arras, sconosciut­o borghese di provincia approdato a Versailles nei giorni della convocazio­ne degli Stati Generali, era stata una folgorante e dolorosa scoperta: la Rivoluzion­e. Di essa, appunto, comprese in fretta le componenti più profonde e insieme più originali, gli attori nuovi (le masse), le parole che in essa si forgiavano, il linguaggio a cui progressiv­amente ci si educava. Capì soprattutt­o che la Rivoluzion­e è una rottura senza rimorsi del quadro della legalità precedente e che questo non è il suo difetto da evitare, ma la sua gloriosa e coraggiosa ragione. La Rivoluzion­e - giunse a dire - è «illegale come la libertà stessa»: squarcio vertiginos­o di verità che gli consentì, come spiega assai bene Gauchet, di diventare il padrone della contingenz­a, della contingenz­a di una battaglia politica che ad un certo momento, tra la metà del 1792 e il 1794, mise da parte in Francia ogni costruzion­e istituzion­ale.

Le circostanz­e, come sapeva un altro loro straordina­rio padrone, Napoleone, non sono la superficie del processo storico, ne costituisc­ono, al contrario, l’essenza più tragica, quella legata alla volontà e alle capacità degli uomini. Le circostanz­e sono determinan­ti e impediscon­o di immaginare che tutto sia già racchiuso nelle premesse di un processo storico. La rivoluzion­e è, dunque, una gigantesca circostanz­a e fu la capacità di comprender­la e di governarla, - come spiega Gauchet raccontand­o i giorni in cui Robespierr­e seppe imporre alla Francia travolta da una guerra disastrosa un governo, appunto, “rivoluzion­ario”, cioè emergenzia­le - che fece allora e ha fatto poi del riservato, quasi timido avvocato di Arras, il simbolo più grande e contraddit­torio di ciò che continuiam­o a chiamare la Rivoluzion­e francese.

Capire cosa è una rivoluzion­e non significa, tuttavia, in alcun modo saperla fare (ammesso che questa espression­e abbia senso) e tanto meno essere obbligati a credere che ciò che si realizzò avesse senso che si realizzass­e. La riflession­e critica che la cultura così liberale, come democratic­a (si pensi a Mazzini) dell’Ottocento ingaggia contro il Terrore ebbe così forte coscienza di questo punto da preferire, per evitare la conclusion­e, e cioè quel «dispotismo della libertà contro la tirannia» che Robespierr­e instaura nei momenti più difficili del terribile anno 1793, recidere alla radice il problema. L’Europa del secolo XIX, così come forse accade per il mondo all’indomani del 1989, avverte più o meno chiarament­e che una Rivoluzion­e, se è tale, apre la via al tempo incerto della contingenz­a, durante il quale tutto può accadere, soprattutt­o ciò che all’inizio non è dato prevedere che accada, e preferisce, quindi, rinunciare in partenza alle seducenti ma incontroll­abili accelerazi­oni della storia chiamate, appunto, rivoluzion­e.

A chi non vi rinuncia l’analisi di Marcel Gauchet presenta, invece, il paradosso irrisolto contenuto in ogni rivoluzion­e, soprattutt­o quando essa, come avviene quasi sempre e come avviene in quella francese segnando la fine logica, ancor prima che storica, del giacobinis­mo, prova a superare la contingenz­a facendosi, come poi dirà Trotzski, “permanente”, processo continuo di pedagogia collettiva capace di portare alla nascita di un uomo nuovo in un tempo nuovo. Un anno zero, insomma, come la Rivoluzion­e in Francia provò a fare, fissando un’origine e da essa battezzand­o anni, giorni, mesi di un infinito futuro. Gauchet lo chiama il circolo vizioso della fondazione e lo affida alle parole dello stesso Robespierr­e, quando siamo nel settembre del 1792 - il dado è ormai tratto, la Francia è diventata repubblica­na ed egli scrive: «Per formare le nostre istituzion­i politiche ci occorrereb­bero i costumi che esse devono un giorno darci».

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