Le coraggiose ragioni delle rivoluzioni
Il saggio di Marcel Gauchet sulle idee di Robespierre
Aqualcuno che ancora oggi insistesse in quella domanda che tanto divertiva e irritava Marc Bloch, se qualcuno, cioè, oggi volesse ancora chiedere di capire cosa sia stata la Rivoluzione francese, varrebbe proprio la pena di rispondere, dopo aver letto questo libro: rivolgiti a Robespierre!
Fu lui, infatti, secondo le pagine profonde intelligenti che ci regala Marcel Gauchet, figura tra le più stimolanti di quel liberalismo francese che si lega ai nomi di Raymond Aron e poi di François Furet, a capire per primo che cosa stesse realmente accadendo in Francia. A capire, cioè, che cosa fosse una Rivoluzione, quando tutto e tutti intorno a lui, dopo il giuramento della Pallacorda, dopo le Costituzioni scritte e le Costituzioni violate, mentre la guerra cresceva intorno e sempre più mostrava il volto di un conflitto tra due tempi e due Europe, si affannavano ancora a immaginare che si trattasse di una trasformazione di ciò che era fino ad allora esistito, di una riforma di ciò che di sbagliato o semplicemente di inattuale ci fosse da eliminare rispetto al passato. A loro, a tutti quelli che esitavano, che si rammaricavano delle troppe macchie che le circostanze sembravano imporre alle loro idee luminose, dei troppi e talvolta brutali inciampi che ostacolavano un cammino annunciato come ragionevole e consensuale, egli buttò in faccia una domanda sferzante: «Volevate, forse, una Rivoluzione senza Rivoluzione?».
Meno brutale della frase non meno celebre che dobbiamo a Mao –«La Rivoluzione non è un pranzo di gala» quella pronunciata da Robespierre la supera largamente per la non compiaciuta coscienza della drammaticità di quella che anche per lui, avvocato di Arras, sconosciuto borghese di provincia approdato a Versailles nei giorni della convocazione degli Stati Generali, era stata una folgorante e dolorosa scoperta: la Rivoluzione. Di essa, appunto, comprese in fretta le componenti più profonde e insieme più originali, gli attori nuovi (le masse), le parole che in essa si forgiavano, il linguaggio a cui progressivamente ci si educava. Capì soprattutto che la Rivoluzione è una rottura senza rimorsi del quadro della legalità precedente e che questo non è il suo difetto da evitare, ma la sua gloriosa e coraggiosa ragione. La Rivoluzione - giunse a dire - è «illegale come la libertà stessa»: squarcio vertiginoso di verità che gli consentì, come spiega assai bene Gauchet, di diventare il padrone della contingenza, della contingenza di una battaglia politica che ad un certo momento, tra la metà del 1792 e il 1794, mise da parte in Francia ogni costruzione istituzionale.
Le circostanze, come sapeva un altro loro straordinario padrone, Napoleone, non sono la superficie del processo storico, ne costituiscono, al contrario, l’essenza più tragica, quella legata alla volontà e alle capacità degli uomini. Le circostanze sono determinanti e impediscono di immaginare che tutto sia già racchiuso nelle premesse di un processo storico. La rivoluzione è, dunque, una gigantesca circostanza e fu la capacità di comprenderla e di governarla, - come spiega Gauchet raccontando i giorni in cui Robespierre seppe imporre alla Francia travolta da una guerra disastrosa un governo, appunto, “rivoluzionario”, cioè emergenziale - che fece allora e ha fatto poi del riservato, quasi timido avvocato di Arras, il simbolo più grande e contraddittorio di ciò che continuiamo a chiamare la Rivoluzione francese.
Capire cosa è una rivoluzione non significa, tuttavia, in alcun modo saperla fare (ammesso che questa espressione abbia senso) e tanto meno essere obbligati a credere che ciò che si realizzò avesse senso che si realizzasse. La riflessione critica che la cultura così liberale, come democratica (si pensi a Mazzini) dell’Ottocento ingaggia contro il Terrore ebbe così forte coscienza di questo punto da preferire, per evitare la conclusione, e cioè quel «dispotismo della libertà contro la tirannia» che Robespierre instaura nei momenti più difficili del terribile anno 1793, recidere alla radice il problema. L’Europa del secolo XIX, così come forse accade per il mondo all’indomani del 1989, avverte più o meno chiaramente che una Rivoluzione, se è tale, apre la via al tempo incerto della contingenza, durante il quale tutto può accadere, soprattutto ciò che all’inizio non è dato prevedere che accada, e preferisce, quindi, rinunciare in partenza alle seducenti ma incontrollabili accelerazioni della storia chiamate, appunto, rivoluzione.
A chi non vi rinuncia l’analisi di Marcel Gauchet presenta, invece, il paradosso irrisolto contenuto in ogni rivoluzione, soprattutto quando essa, come avviene quasi sempre e come avviene in quella francese segnando la fine logica, ancor prima che storica, del giacobinismo, prova a superare la contingenza facendosi, come poi dirà Trotzski, “permanente”, processo continuo di pedagogia collettiva capace di portare alla nascita di un uomo nuovo in un tempo nuovo. Un anno zero, insomma, come la Rivoluzione in Francia provò a fare, fissando un’origine e da essa battezzando anni, giorni, mesi di un infinito futuro. Gauchet lo chiama il circolo vizioso della fondazione e lo affida alle parole dello stesso Robespierre, quando siamo nel settembre del 1792 - il dado è ormai tratto, la Francia è diventata repubblicana ed egli scrive: «Per formare le nostre istituzioni politiche ci occorrerebbero i costumi che esse devono un giorno darci».