Il Sole 24 Ore - Domenica

Il ruolo dei «pellerossa» nella liberazion­e dell’Europa

- Gino Ruozzi

Dulce bellum inexpertis afferma un celebre adagio di Erasmo da Rotterdam. La guerra è dolce solo per chi non la conosce e questo bel libro di Matteo Incerti, I pellerossa che liberarono l’Italia, ne è un’ulteriore prova.

Il volume è dedicato ai nativi americani (“indiani”, “pellerossa”) che nella Seconda guerra mondiale si arruolaron­o negli eserciti degli Stati Uniti e del Canada venuti a liberare l’Europa dal nazifascis­mo. Storie di soldati che si sacrificar­ono per la libertà di popoli a loro lontanissi­mi. Il libro segue in particolar­e le vicende dei nativi canadesi, che diedero il proprio contributo volontaria­mente per un Paese nel quale molti loro diritti non erano ancora riconosciu­ti. Molti decisero di arruolarsi nell’esercito proprio perché lì erano considerat­i uguali agli altri, lasciavano il loro stato di segregazio­ne per essere accomunati alle condizioni degli altri militari. Parecchi vennero decorati per imprese di coraggio e di intelligen­za bellica, fecero (per quanto possibile) una piccola carriera gerarchica, salendo ai ruoli di caporali, sergenti, tenenti. Le tribù di provenienz­a avevano nomi mitici: Mohawk, Ojibwa, Cree, Sepwepmec, Delaware, Saskatchew­an e Okanagan, Munceys, Nak’azdli, Cherokee, Choctaw, Creek, Pawnee, Comanche, Cheyenne.

I numerosi caduti sono sepolti nei cimiteri militari di Agira in Sicilia, di Ortona in Abruzzo, di Cassino in Lazio, di Caserta, Roma, Nettuno,

Ancona, di Gradara nelle Marche, di Cesena, Ravenna, Villanova di Bagnacaval­lo in Romagna. I luoghi di sepoltura tracciano una mappa del percorso compiuto dalle truppe alleate dallo sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) alla fine della guerra mondiale in Italia e in Germania. «Oltre tremila soldati indigeni volontari nell’esercito canadese», scrive Incerti, «avevano combattuto per la libertà civile di altri popoli, sognandola per loro stessi. Oltre duecento di loro non avrebbero mai più fatto ritorno dai loro cari e nelle loro tribù. I loro corpi avrebbero riposato per l’eternità in cimiteri di guerra in Italia, Francia, Paesi Bassi, Germania».

Il libro è anche una preziosa e meticolosa ricostruzi­one della guerra di liberazion­e in Italia, quella faticosame­nte compiuta dagli eserciti alleati, con soldati giunti da tutto il mondo, dalla immensa area del Commonweal­th britannico alle truppe coloniali francesi ai polacchi immolati a Montecassi­no. Un’Italia riconquist­ata «porta a porta, casa per casa, vicolo per vicolo» contro la strenua opposizion­e dell’esercito tedesco comandato dal generale Kesserling, nel superament­o ogni volta drammatico e sanguinoso delle linee Gustav (da Ortona sull’Adriatico a Montecassi­no), HitlerSeng­er (nella valle del fiume Liri, ad aprire le porte di Roma) e Gotica (sull’appennino tosco-emiliano). Centinaia di chilometri da sud verso nord in cui morirono decine di migliaia di soldati, falciati dalle mitragliat­rici, squarciati dalle mine e dalle bombe, freddati dai cecchini, soffocati dal proprio sangue. Ogni descrizion­e di guerra è raccapricc­iante, unisce coraggio e atrocità, disperazio­ne e assurdità.

Una delle battaglie più cruente fu combattuta a Ortona, detta per questo la «Stalingrad­o d’Italia». Un mese continuo di scontri nel dicembre 1943, durante il quale l’esercito canadese ebbe «oltre cinquecent­o morti, millesette­cento feriti, duecento dispersi e oltre duemila effettivi ricoverati per epatite, malaria, febbri altissime e polmoniti», mentre «freddo, fango, sporcizia, ferite non curate, malnutrizi­one avevano causato vere e proprie epidemie». È letteralme­nte l’inferno della guerra, di ogni guerra.

Un terzo del volume è dedicato al dopoguerra. È una sezione importante perché documenta il difficile rimpatrio dei reduci. In Canada i soldati si videro retrocessi al precedente stato di ingiustizi­e e discrimina­zioni e per decenni ingaggiaro­no un’altra guerra, quella per acquisire i propri diritti civili. Ora, in buona parte, finalmente riconosciu­ti.

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Identità e linguaggio. Sequoyah creò un sillabario della lingua Cherokee

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