Kentridge in processione
«More Sweetly Play the Dance» è una video-installazione che interpreta in maniera potente le caratteristiche degli oscuri e severi Arsenali recuperati dopo un accurato restauro
Monumento della potenza della repubblica marinara nata più di dodici secoli fa, gli Arsenali di Amalfi sono allo stesso tempo l’ultimo esemplare ancora esistente di un’architettura funzionale dell’Anno mille e un landmark nella geografia delle avanguardie della seconda metà del XX secolo. Qui, infatti, nel 1968 un giovane Germano Celant lanciò (dopo un’anteprima alla galleria La Bertesca di Genova) la mostra ormai di culto Arte povera più azioni povere, avviando l’inarrestabile processo di internazionalizzazione di quel gruppo di artisti degli anni Sessanta che vennero poi riconosciuti sotto la comprensiva bandiera dell’Arte Povera. L’aveva promossa e strenuamente voluta un altrettanto giovane gallerista, il salernitano Marcello Rumma, che fece da catalizzatore in quel breve giro di anni febbrili (morì infatti nel 1970), non solo per la rinascita culturale del Sud ma anche per l’avvio di un format d’intervento degli artisti nello spazio pubblico che era allora, almeno in Italia, quasi del tutto inedito. Sfogliandone gli archivi, si ritrova nelle cronache di quell’evento tutto il Gotha della nuova arte italiana, da Anselmo a Boetti, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Pascali, Pistoletto, Zorio, eccetera, inclusi l’inglese Richard Long e gli olandesi Dibbets e Van Elk. Una mostra espansiva, non più confinata negli spazi di una galleria, ma alloggiata in uno spazio monumentale pubblico che si espandeva all’esterno - tra le piazze, i vicoli e la spiaggia di Amalfi - con performance, happening ed azioni di strada in una sorta di continua processione, per coinvolgere il pubblico e i più diversi angoli della città in una sarabanda creativa.
More Sweetly Play the Dance di William Kentridge è l’istallazione scelta per celebrare la memoria di quei luoghi e di quegli anni che, pur tra le prudenti procedure imposte dalla pandemia, certamente richiamerà ad Amalfi tanti protagonisti dell’arte per quello che si annuncia come modello di un possibile recovery plan di rilancio dell’arte in tutto il Sud del Paese. Questo evento è infatti il terzo tassello del progetto Amalfi e Oltre - voluto dalla Regione Campania nell’ambito del grande progetto di digitalizzazione della cultura della Campania per gli Archivi del Contemporaneo, attuato da Scabec, dopo il convegno Progettare la Memoria: strategie del digitale e la mostra I sei anni di Marcello Rumma inaugurata nel 2019 al Museo d’arte contemporanea MADRE di Napoli. La commemorazione storica insomma si apre alla progettazione attiva di nuovi spazi per l’arte, come gli Arsenali che si presentano al pubblico in una versione che restituisce la dignità e il fascino di questo straordinario contenitore, un po’ come è accaduto con le Corderie dell’Arsenale per la Biennale di Venezia.
Presentata in anteprima nel 2015 all’Eye Film Institute di Amsterdam, More Sweetly Play the Dance è una video-installazione su otto grandi schermi, che si giova in maniera sostanziale della sua nuova location, interpretando in maniera potente le caratteristiche di quegli spazi cavernosi e severi che l’accurato restauro degli architetti Pompeo Mazzuzza e Nunzio Vitale ha saputo riesumare dalle spoglie appesantite dai tanti, disordinati interventi che si sono succeduti nel corso di questi ultimi 50 anni. Togliere anziché aggiungere è stata la chiave di svolta per mettere in luce la materialità delle superfici in pietra e mattoni, che racchiudono con tanta efficacia semplicità il tenebroso vuoto piranesiano.
Entrare agli Arsenali è come imboccare la soglia di un antro che si addentra per più di 40 metri nella scorza di Amalfi con l’essenziale struttura dei suoi poderosi archi ogivali: qui si producevano e si mettevano in sesto le «sagene», le potenti navi da guerra di origine araba; qui si installò nel 1968 la mostra-laboratorio di Celant.
L’architettura effimera degli schermi, disposti in diagonale nella seconda delle due campate, si rivela agli spettatori un po’ per volta: si entra nel buio, attratti dai suoni degli ottoni e delle musiche tribali che abbiamo imparato ad apprezzare in altre simili installazioni dell’artista sudafricano, che con quest’opera ritorna in Campania dopo l’exploit del mosaico nella stazione Toledo della metropolitana di Napoli, forse uno dei suoi più riusciti tentativi di riesumare il lato oscuro e burlesco della storia. Se alle OGR di Torino l’esercito degli operai dei treni si materializza nella successione di grandi sculture metalliche, ad Amalfi si mette in scena una scatenata processione in cui si sarebbe tentati di leggere la memoria di tanti riti dell’Italia ancestrale e preindustriale, a partire forse proprio dalla sfilata dei «battenti» che ogni Venerdì Santo si muove dalla scalinata del Duomo di Amalfi per dilagare nei vicoli, nelle piazze e sulla spiaggia del borgo della costiera.
In questo, William Kentridge assomiglia al pifferaio magico della fiaba: combinando tecniche d’animazione, video e musica, soffia a perdifiato nella tromba della storia. Il ritmo cadenzato ed ossessivo delle trombe e dei tamburi è il motore che fa sfilare personaggi d’ogni genere; allegri e tristi, anonimi detriti, santi, condottieri e personaggi del mito: una sarabanda che evoca i medievali trionfi della morte, ma ne vira la tragicità della fine universale verso toni di irrefrenabile e vorticante energia. Come ha dichiarato in videoconferenza dal suo studio di Johannesburg, Kentridge è attratto dalla potenza del cambiamento e dall’energia del movimento: tanto più necessari - ha precisato - in questi mesi di confinamento e di contatti digitali. L’irruenza del corpo che si muove freneticamente su sollecitazione della musica – ha spiegato – anima e rinvigorisce la voglia e la necessità di stare assieme, di toccarsi, di produrre una sorta di energia del mondo che alla fine sconfigge ogni evocazione macabra, ogni consapevolezza del consumo e della fragilità del mondo per aprire all’allegria della speranza. Una coinvolgente maniera di comunicare che forse anche questa volta ce la faremo.