Roma, la capitale sì bella e venduta
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La nuova immagine di Roma nasceva in funzione della politica interna, ma si rivelava esportabile. George P. Marsh, primo ambasciatore americano in Italia (seguì Re e governo nel passaggio di capitale da Torino a Firenze a Roma), nel suo libro pionieristico Man and Nature (1864, traduzione italiana 1870) faceva centro sull’impero romano per teorizzare la necessità di difendere il paesaggio in America. Scrittori come Herman Melville (Roman Statuary) e Nataniel Hawthorne (The Marble Faun) mettevano a punto una nostalgia del classico che a Roma trovava la sua patria naturale. Ma esportabili erano, ahinoi, anche le opere d’arte; e per molti anni dopo l’unità l’Italia non seppe darsi una legge nazionale di tutela, limitandosi a prorogare (ma a singhiozzo) le leggi dei singoli Stati preunitari. La prima legge arrivò nel 1903, ma era debolissima perché tutelava solo le opere “di sommo pregio” di appositi elenchi (che non furono mai fatti). Una legge efficace non vi fu se non nel 1909: quasi cinquant’anni dal Regno d’Italia, quaranta da Roma capitale. Vi era stato dunque tutto il tempo perché decine di migliaia di opere d’arte prendessero la strada dei musei francesi, tedeschi, inglesi, americani.
Di questa colossale emorragia Coen offre numerosissimi esempi, che si accompagnato a interessanti profili, come quello di un ecclesiastico minore, Marcello Massarenti, che ammassò in un palazzo romano migliaia di opere d’arte (inclusi i falsi), visitabili e catalogati come in un museo, ma intanto messi in vendita. Molto di quel materiale fu acquistato da Henry Walters nel 1902, e perciò è oggi a Baltimora, Walters Art Gallery: fra l’altro, opere di qualità suprema come i sarcofagi dionisiaci (c. 190-210 d.C.) trovati sulla via Salaria nel 1885. A evitare l’esportazione non bastava la qualità, e non bastava nemmeno il pedigree delle opere in vendita: perfino la mirabile serie degli arazzi Barberini su disegno di Rubens, documentati a Roma sin dal 1630, emigrarono senza difficoltà (sono ora al Philadelphia Museum of Art). Nel 1908 Luigi Bistolfi riuscì a trattenere in Italia la Fanciulla di Anzio (Museo Nazionale Romano), ma fu rara eccezione. Roma capitale rilanciava dunque nel mondo una nuova immagine, accoglieva artisti stranieri ed esportava i propri. Ma la Terza Roma (dopo la prima, dei Cesari, e la seconda, dei Papi) pagava un prezzo altissimo con le dispersioni del suo patrimonio. Restituendo l’intreccio fra collezionismo italiano e straniero, iniziative di artigianato industriale e sperimentazione di stili storici, passione civile e istinto mercantile, il libro di Paolo Coen traccia una mappa che è anche lo sfondo su cui si svolsero negli stessi anni le discussioni che avrebbero portato, dopo mille contrasti, alle prime leggi di tutela dell’Italia unita, quelle dei ministri Rava (1909) e Benedetto Croce (1922).